L'intervista

Ignazi: «Con le destre l’Italia va sulla strada di Polonia e Ungheria»

Michele De Feudis

Professor Piero Ignazi, componente del comitato scientifico della Fondazione Di vagno, tra pochi giorni tornerà nelle librerie con il saggio «Partiti e elezioni nell’Italia repubblicana» (edito da Il Mulino). Cosa c’è in ballo per il Paese nel voto di domani?

«Il rischio di uno scivolamento dell’Italia verso i paesi illiberali dell’Europa dell’Est, come Ungheria e Polonia».

Quali elementi fanno pensare a questa dinamica?

«Le scelte fatte in particolare da Giorgia Meloni e Matteo Salvini, simili a quelle adottate da Orban a Budapest e da Kaczyński in Polonia, con una tendenziale limitazione dei diritti civili a partire dall’aborto, passando per una nuova stretta con il controllo politico sulla giustizia e e sui media».

La destra al governo può far paura all’Ue?

«Fa paura a noi, alla componente democratica di questo Paese e preoccupa l’Europa».

Il profilo riformista-presidenzialista della Meloni?

«Sulle riforme istituzionali resto freddo. Mi sembra una storia inventata, che non ha alcun senso. Ci vuole una riforma elettorale per scrivere regole degne di un paese civile, non la “boiata” che abbiamo attualmente».

Chi è stato il leader più incisivo in questa campagna elettorale insolitamente estiva?

«Giuseppe Conte: ha sollevato un tema con molta forza, quello delle disuguaglianze e delle disparità di reddito, soprattutto al Sud. È stato molto efficace nelle ultime battute e nei confronti a cui abbiamo assistito».

Sulla crisi del welfare quali le soluzioni di centrodestra e centrosinistra?

«Da destra propongono trenta miliardi di sforamento del Bilancio. È tipico della cultura destra ignorare come si governa un paese moderno. La sinistra è rimasta tiepida su questi temi, attenta agli equilibri economici. Poteva essere con Letta più innovativa e propositiva».

Chi è stato tra i leader il meno incisivo?

«Berlusconi è stato patetico. Letta non ha sfruttato il potenziale che i dem potevano esprimere, perché non è un uomo da campagna elettorale. Assomiglia a Romano Prodi, è un uomo di governo, delle istituzioni. Non un animale da comizio, a differenza di Conte».

Cosa resta del populismo che segnò i duelli del 2018?

«Questo fenomeno resta una costante della politica italiana. Ne permangono molti elementi. A destra è sempre stato dominante. A sinistra ha fatto capolino meno che tra i conservatori».

Sul reddito si è materializzata una forma inedita di "populismo pauperista”?

«No, quella è una politica fondata su una visione sociale, come la proposta di introdurre il salario minimo».

Cosa è sparito dai radar in queste settimane?

«Pandemia e ambiente sono stati marginali nel dibattito pubblico. È sorprendente come il tema sanità sia addirittura scomparso, dimenticando i due anni terribili trascorsi con il Covid».

Sul caro-energia chi ha convinto di più?

«Tutti e nessuno. Sono state dette più o meno le stesse cose. Nessuno si è intestato una soluzione innovativa. Hanno parlato di ristori…».

C’è il dossier guerra?

«Sono emerse le posizioni significative di Berlusconi, sintomo di una ambiguità sulla Russia di Putin, di un suo giustificazionismo impressionante. La destra si dimostra non affidabile sul piano internazionale. La Meloni euroatlantica non fa dimenticare il suo euroscetticismo. C’è molta inquietudine all’estero. Conte poi ha l’idea di un’Italia come “paese mediatore”, incarna una velleità. Che l’Italia possa avere carte diplomatiche nei complessi scenari internazionali è soltanto una pia illusione».

Il rapporto con l’Ue resta centrale?

«L’Italia è un paese cardine dell’Europa e se dovesse “scarrocciare” e andare fuori binario creerebbe grossi problemi all’Ue».

A cosa si riferisce?

«Alla eventualità che non si rispettino le indicazioni sui bilanci, le modalità di attuazione del Pnrr. Tra i paesi comunitari c’è chi ha accettato di sorvolare sulle norme del patto di stabilità per soccorrere sistemi economici in difficoltà come il nostro. Ora davanti alla fine dell’emergenza, questi Stati sono meno disposti a offrire spazi ulteriori di manovra all’Italia, soprattutto se le regole vengono stravolte. C’è chi è pronto a invocare rigore e austerità. Come ha detto la Meloni, la pacchia è finita, ma per noi».

Le priorità per il prossimo presidente che entrerà a Palazzo Chigi?

«Ridare fiato all’economia e alle famiglie, con le differenti sensibilità del centrodestra o del centrosinistra».

Lo slogan più convincente?

«Quello di Enrico Letta all’inizio, che invitava a “scegliere” tra ili rosso e il nero. Ha sbagliato ad abbandonarlo. Doveva insistere su un elemento identitario molto chiaro. Avrebbe convinto molti incerti, tentati dall’astensione o dal voto di protesta».

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