Il punto del direttore
Nove domande sull’Ilva per la premier Meloni: se la sente di rispondere?
Si poteva evitare il blocco di Afo 1: forse sì, con una più proficua collaborazione istituzionale e una migliore conoscenza del funzionamento di un altoforno ma cosa fatta capo ha, e il passato, pur così recente, non lo cambia nessuno
TARANTO - Non se ne può più. Delle svolte puntualmente annunciate e sempre rinviate. Degli incidenti figli di mano ignota e padri di tempeste senza fine. Della contrapposizione tra chi – la politica - dovrebbe tutelare lo stabilimento siderurgico di Taranto ritenuto dal 2012 contemporaneamente fonte di malattie e morte per chi ci lavora e chi ci abita nelle vicinanze e strategico per l’economia dell’Italia, e chi invece – la magistratura – avvia accertamenti e indagini per punire condotte vietate dalla legge, obbedendo al principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Il blocco dell’altoforno 1 lascia l’acciaieria di Taranto in mutande: con un solo altoforno in funzione, il numero 4, non proprio un giovanotto, serve molto meno personale in servizio, occorrono molti soldi per coprire le perdite giornaliere (2 milioni?), è impossibile ipotizzare un piano industriale degno di questo nome, pare surreale dibattere su un’Autorizzazione integrata ambientale disegnata per 12 lunghi anni attorno a un deserto impiantistico che ha dimostrato di non avere anni davanti a sé e forse nemmeno mesi.
Si poteva evitare il blocco di Afo 1: forse sì, con una più proficua collaborazione istituzionale e una migliore conoscenza del funzionamento di un altoforno ma cosa fatta capo ha, e il passato, pur così recente, non lo cambia nessuno.
Non se ne può più del gioco del silenzio attorno alla trattativa con Baku. Ci sono ragioni di riservatezza, innegabili, ma c’è pure il diritto di una comunità, quella tarantina, da ormai 13 anni provata e impoverita da una fabbrica che sforna soprattutto migliaia di giornate di cassa integrazione a carico dei contribuenti, a conoscere e pure determinare il suo futuro.
Gli azeri quanto acciaio vorranno produrre a Taranto? Con quale tecnologia? Con quanti dipendenti? Con quale fonte di energia? Che ne sarà di chi non rientrerà nel perimetro della forza lavoro? Quanto spazio ci sarà per le imprese dell’indotto? Quando, come, e con i soldi di chi saranno demoliti e bonificati gli impianti ritenuti non più funzionali alla “nuova” Ilva? Soprattutto, Baku è ancora interessata a rilevare l’Ilva? Se la risposta è no, che ne sarà dell’Ilva?
Ecco, in un paese davvero democratico, con un Governo libero e trasparente, ci piacerebbe porre queste domande, che non contengono nulla di eversivo oltre alla verità che sollecitano, e ricevere tutti i chiarimenti richiesti, ponendo così fine alla stagione dei silenzi e dei non detti.
Sono domande che dovrebbero diventare patrimonio comune dei 6 candidati alla carica di sindaco di Taranto perché il futuro di Taranto non ha colore politico e il futuro dell’Ilva non ha bisogno di demagogia – come non ricordare il comizio al rione Tamburi di Di Maio e Dibattista con l’annuncio che la crisi dell’Ilva era stata risolta – ma di parole chiare, precise e risolutive.
Che ne pensa Presidente Meloni, se la sente di rispondere alle nostre domande?