Icaro

Musica e nuvole: la poetica nelle note

Nicola Morisco

Due mondi apparentemente lontani, uniti per un attimo irripetibile nella storia del cinema e della musica italiana. Pier Paolo Pasolini e Domenico Modugno, il poeta friulano e il cantautore pugliese, si incontrarono artisticamente nel 1967 per dare vita a uno dei momenti più alti e toccanti del nostro ‘900 culturale: Che cosa sono le nuvole?. L’incontro avvenne sul set di questo film breve di 20 minuti, scritto e diretto da Pasolini come episodio del film collettivo Capriccio all’italiana. Modugno, già celebre per Nel blu dipinto di blu, fu scelto dal regista per interpretare uno spazzino, una figura surreale e malinconica che raccoglie e accompagna i resti di due marionette ribelli, impersonate da Totò e Ninetto Davoli. È un piccolo film, ma di intensità straordinaria: una parabola sull’arte, la verità e la libertà, che trova la sua sintesi perfetta nella canzone omonima scritta da Pasolini e messa in musica e cantata da Modugno. Che cosa sono le nuvole, con la sua melodia struggente e il testo di rara poesia - “E il mio cuore si gonfia e poi scoppia e poi… che cosa sono le nuvole?” - diventa il punto d’incontro tra due sensibilità profondamente diverse ma complementari. Pasolini, il poeta-intellettuale che cercava l’anima autentica del popolo, e Modugno, l’artista che quella voce popolare l’aveva nel sangue, figlio del Sud e interprete di un’Italia semplice, ancora ingenua ma piena di sogni. Nonostante non ci siano tracce di una lunga collaborazione o di un’amicizia duratura, i due artisti si stimavano sinceramente. Modugno ricordò in seguito Pasolini come “un uomo vero, uno che ti guardava dentro”, mentre Pasolini vedeva in Modugno “un simbolo dell’arte popolare che diventa poesia”. Ancora oggi, Che cosa sono le nuvole, continua a commuovere e a far riflettere. È la prova che, quando la grande poesia incontra la voce del popolo, l’arte supera i confini dei generi e del tempo.

Ma il rapporto di Pasolini con la musica è tra i più sottili e profondi della cultura italiana del ‘900. Pur non essendo un musicista, Pasolini fece della musica una dimensione essenziale della propria poetica: non semplice accompagnamento, ma forma del pensiero, linguaggio del sacro e del profano, voce collettiva e atavica del popolo. Nei suoi versi, nei film, nelle riflessioni corsare, la musica diventa strumento di conoscenza e di giudizio, segno di una tensione morale che attraversa tutta la sua opera. Sin dalle prime raccolte in friulano (ricordiamo Il soldato di Napoleone canzone di Sergio Endrigo tratta dal poemetto di Pier Paolo Pasolini in friulano Il soldât di Napoleon, dalla raccolta del 1954 intitolata La meglio gioventù), Pasolini concepisce la lingua come materia sonora. La sua poesia è costruita su un ritmo interno, una cadenza che si avvicina al canto. Le assonanze, le ripetizioni, i dialetti diventano strumenti di un’orchestrazione linguistica che restituisce il battito del mondo contadino e delle borgate. Per Pasolini la musica non è solo arte dei suoni, ma modello d’armonia: il linguaggio poetico è, come la musica, un atto di rivelazione.

Nei film di Pasolini la musica è struttura drammatica e controcanto poetico: non illustra le immagini, ma le contraddice e le eleva. In Accattone (1961) la Passione secondo Matteo di Johann Sebastian Bach sacralizza il sottoproletariato romano, fondendo il barocco con il fango della borgata in una tensione che trasfigura il reale in mito. La musica diventa sacrale (eleva la miseria), straniante (costringe alla riflessione), e lirica (dà voce all’indicibile). La morte di Accattone, accompagnata da Bach, è una preghiera laica per i “dannati della terra”. In Il Vangelo secondo Matteo (1964) Pasolini intreccia Bach, spiritual afroamericani, Wolfgang Amadeus Mozart, Sergej Prokofiev e canti africani: un mosaico sonoro che esprime l’universalità del sacro. Nei film successivi, Teorema, MedeaSalò, la musica diventa strumento critico, simbolico e perturbante. Parallelamente, Pasolini esplora la musica popolare come voce autentica del popolo, residuo di un mondo non ancora omologato. Nei canti contadini e nelle collaborazioni con Domenico Modugno e Giovanna Marini riconosce una poesia arcaica. Negli Scritti corsari denuncia la musica leggera come veicolo di omologazione: la canzonetta, un tempo voce del popolo, diventa rumore del consenso e segno della “mutazione antropologica” borghese.

Non meno importante è l’eredità che Pasolini ha lasciato anche attraverso la musica italiana: De André condivide la pietà per gli ultimi, Battiato ne eredita la tensione mistica, De Gregori la trasforma in allegoria civile. I CCCP, CSI e PGR ne fanno un modello etico, fondendo marxismo, religiosità e disperazione. Brani come Amandoti o Povera patria proseguono la sua denuncia poetica. Lolli, Bertoli, Marlene Kuntz, Afterhours, Zamboni, evocano Pasolini come coscienza del nostro tempo, in cui raccontano la perdita del sacro e la resistenza all’omologazione. Come scrisse lui stesso: “Io so. Ma non ho le prove”. Forse la musica, per Pasolini, era proprio questo: la prova mancata del mistero umano, la verità che non si dice, ma si canta.

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