Il volume di Curcio

Intellettuale nel pallone

Milena Pistillo

La passione per il calcio ultimo rito di un popolo

Il 5 novembre 1975, giorno dei funerali di Pasolini, il feretro fu sorretto da Ninetto Davoli, Franco Citti - gli amici di una vita - Bernardo Bertolucci ed Ettore Garofolo. Sulla bara era stata collocata una maglia da gioco, quella della Nazionale dello spettacolo: Pier Paolo Pasolini, numero 11. Il calcio ha accompagnato PPP fino alla fine, è stata la passione di una vita come si legge nel testo di Valerio Curcio, Il calcio secondo Pasolini, (Aliberti). Una passione che nasce da  bambino quando  andava a passare le estati a Casarsa nel Friuli, il paese della madre Susanna, giocando nel Casarsa Foot Ball Club. Quando si trasferì a Bologna questa passione esplose e giocava per ore, sfruttando la sua velocità: per questo gli amici lo chiamavano “Stukas” come i famosi bombardieri tedeschi. Negli anni universitari disputò anche il torneo tra le facoltà bolognesi come capitano della squadra di Lettere.

L’amore viscerale per la squadra del Bologna andò di pari passo con l’ammirazione per il giovane capitano Bulgarelli che ebbe il piacere di intervistare per il documentario Comizi d’amore, ma il suo mito calcistico era Amedeo Biavati che potè apprezzare in maglia rossoblù durante il periodo vissuto da studente in città e di cui ammirava il “doppio passo”, un funambolico dribbling da cui PPP rimase stregato e che tentò di emulare in tutte le sue partite. “Il tifo è una malattia che dura tutta la vita” ebbe modo di dichiarare nell’intervista fattagli da Giulio Crosti per Paese sera.

Nel periodo romano, verso via di Donna Olimpia, in mezzo ai campi e ai “Grattacieli” come venivano chiamate le case costruite dall’Istituto Case Popolari negli anni 30 per ospitare gli sfollati del centro rimasti senza casa a causa degli sventramenti fascisti, i bambini del popolo giocavano a pallone per ore e Pasolini ambientò i primi capitoli del suo romanzo Ragazzi di vita proprio tra quegli imponenti edifici, sotto il sole cocente dei campi sterrati.

nnotava cose sul suo taccuino, giocava e si lanciava in imprese memorabili come quella di sollevare una mucca sulle spalle, lui che era alto solo 1,67 cm e pesava 59 chili. Era una forza della natura, aveva un corpo instancabile. Già, perché il corpo è fondamentale nel gioco del calcio e quello di PPP - come dichiara Valerio Curcio - “nell’Italia bigotta e moralista dei suoi tempi era un manifesto, un atto politico, un catalizzatore di attenzione”. Famose sono le foto in cui esibisce il suo fisico statuario, in cui si allaccia gli scarpini da calcio, in cui si infila un calzettone nello spogliatoio. Era nota la sua passione per le tenute sportive, sempre impeccabili e perfette come il suo senso estetico richiedeva.

C’è una partita giocata da Pasolini che è rimasta nella storia, il 16 marzo 1975 a Parma in occasione del trentaquattresimo compleanno di Bernardo Bertolucci, ormai regista affermato. Pasolini era a Mantova per le riprese di Salò o le 120 giornate di Sodoma e Bertolucci invece era sul set di Novecento. La partita è rimasta negli annali come “Novecento contro Centoventi” e vide sfidarsi i cast dei due film; PPP giocò con la fascia di capitano al braccio, Bertolucci si limitò a sostenere fuori campo i suoi. C’era molta tensione tra le due squadre che rivaleggiavano ma il risultato fu inequivocabile: 5 a 2 per il cast di Novecento. Pasolini abbandonò il campo su tutte le furie perché i compagni non gli passavano il pallone. In realtà la squadra di Bertolucci giocò sporco: trovarono due ragazzi che giocavano nelle giovanili del Parma e li inserirono nel cast come attrezzisti in modo da farli giocare. Quindi vinsero senza merito. PPP che era di temperamento mite quella volta si adirò particolarmente. A lui piaceva vincere secondo le regole.

In qualità di intellettuale, PPP contesta la definizione del calcio come “oppio dei popoli” che circolava negli ambienti di sinistra dell’epoca; sempre controcorrente, PPP dichiara che, sì, lo sport era sempre stato l’oppio dei popoli fin dall’epoca dei circenses romani ma che questo oppio era “terapeutico”, catartico poiché “le due ore di tifo (aggressività e fraternità) allo stadio sono liberatorie”. Fu un frequentatore assiduo dell’Olimpico; sosteneva che “non c’è nulla che assomiglia a uno stadio pieno di gente… massa viva, ruggente e infine struggente di spettatori”. Celebre fu la sua risposta alle parole di Helenio Herrera, all’epoca allenatore della Roma che aveva polemicamente dichiarato che il calcio serviva solo a “distrarre” i giovani dalla contestazione e dalla rivoluzione, a tener buoni i lavoratori, “come faceva Franco in Spagna con le corride”. PPP criticò fortemente la posizione di Herrera invitando gli intellettuali di sinistra a prendere posizione su questo tema poiché essi evitavano sistematicamente di pronunciarsi sull’argomento, avulsi com’erano dal gioco e dalla sua pratica.

Per PPP il calcio conservava intatta quella sacralità del rito religioso che il teatro, la messa cattolica e le liturgie politiche avevano perduto nella società occidentale; il suo occhio critico lo portava a considerare il calcio come unico fenomeno in grado di coinvolgere le masse, rapirle in una estasi collettiva, farle evadere dalla realtà, con la mediazione imprescindibile del corpo. Una sorta di sacra rappresentazione collettiva in cui lo spirito del popolo aveva modo di esprimersi in totale libertà. Sosteneva inoltre l’esistenza di una “linguistica del pallone” che aprì la strada a una nuova considerazione dello sport negli ambienti culturali. Il calcio aveva un suo “linguaggio” peculiare. Era inoltre sempre quel bambino che giocava a calcio; la sua passione inesausta nasceva da lì. Dacia Maraini - che lo conosceva bene - ebbe a dire in una intervista: «Secondo me PPP andava avanti con la testa rivolta indietro. Inseguiva un se stesso bambino che scappava. Quando giocava, quel bambino prendeva corpo assieme al pallone; quando finiva di giocare, tornava l’adulto inquieto e doloroso che era diventato».

Privacy Policy Cookie Policy