Icaro

La cinepresa lingua scritta della realtà

Anton Giulio Mancino

Se il cinema per Pier Paolo Pasolini è stato la “lingua scritta della realtà”, dapprincipio e sempre, è perché l’ha praticato e non soltanto teorizzato nelle sue “eretiche” ma longeve formulazioni semiologiche. Una “lingua” così, nella sua visione coincidente con la “forza del passato” che tragicamente incarnava e percepiva ovunque, non poteva che manifestarsi ed esprimersi nel Sud Italia, senza soluzione di continuità con i Sud del mondo, che ne sono stati il compendio e l’ampio spettro nella filmografia trasversale ad ogni sua manifestazione critica, letteraria, teatrale, politica. Ecco dunque prendere corpo senza tempo la Grecìa salentina di Stendalì della molese Cecilia Mangini, su soggetto pasoliniano e profonda matrice demartiniana; quindi Matera, epicentro religioso e atavico del Vangelo secondo Matteo (1964), assieme ad altre storiche location meridionali, come il Castello di Gioia del Colle e quello di Lagopesole. Ma anche studiare e prevedere attentamente nel cast la presenza di intellettuali amici e poeti, come l’emblematico, salernitano Alfonso Gatto, che dell’impianto pasoliniano diviene tra le righe il bandolo della matassa. Non è un caso infatti che Giacinto Spagnoletti nel 1959, cioè pochi anni prima del Vangelo secondo Matteo, avesse coniugato l’espressione “verità rimproverata” per Gatto: «Fra i poeti della sua generazione, egli è quello che con grazia più durevole è riuscito a liberare i motivi interiori dalla loro vernice patetica, perché acquistassero un sapore di verità rimproverata, cogliendo al vivo la parte di sé stesso che via via rispondeva all’ansia del tempo con maggior dolore e rancore».

Scambiando i “poeti” con i “cineasti”, è facile sottoscrivere parola per parola il ritratto di Spagnoletti su Gatto nella prassi meridionalista e audiovisiva di Pasolini colta nel mondo intero, dalla Palestina all’Africa. Dopotutto Gatto stesso nel grande cinema d’autore, grazie alla mossa a sorpresa di Pasolini, sarebbe entrato dalla porta principale, quasi portando in dote e contagiando lo schermo inquieto e profetico con la sua fisionomia e l’estendibile “verità rimproverata”, trasferita poi in Cadaveri eccellenti (1976) del napoletano Francesco Rosi, dal romanzo del siciliano Leonardo Sciascia. Ma l’effetto Campania, assieme a quello preminente pugliese e lucano del Vangelo, si sarebbe spostato intanto nella dimensione partenopea totalizzante, liberatoria e vitalistica del Decameron (1971).

Il fitto meccanismo relazionale di Pasolini con radici parallele nei Sud plurali, dalla Palestina al Medio Oriente e al continente africano, non poteva prescindere da quello con la Sicilia fuor di “metafora”: ovvero con lo stesso Sciascia, quasi coetaneo, appena più giovane, di un anno. Il contrasto resta probabilmente il dato più fertile di una distanza che li avrebbe avvicinati “fuori del tempo”, ovvero dopo la morte di Pasolini. L’espressione “convergenze parallele” coniata non proprio dal salentino Aldo Moro, ma a lui più consona nella difficile e infida prassi politica, rende molto bene il tipo rapporto intercorso tra Sciascia e Pasolini. Moro, assassinato in un contesto di circostanze complicate, letterarie e teatrale, diventa il tragico punto d’incontro tra i due. E suggerisce a Sciascia di avviare nel 1978 L’affaire Moro con la scoperta di una lucciola, evocando quindi il fantasma di Pasolini: «Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola. […] Era proprio una lucciola, nella crepa del muro. Ne ebbi una gioia intensa. E come doppia. E come sdoppiata. La gioia di un tempo ritrovato – l’infanzia, i ricordi, questo stesso luogo ora silenzioso pieno di voci e di giuochi – e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini. Per Pasolini. Pasolini ormai fuori del tempo ma non ancora, in questo terribile paese che l’Italia è diventato, mutato in se stesso […]. Fraterno e lontano, Pasolini per me. Di una fraternità senza confidenza, schermata di pudore e, credo, di reciproche insofferenze. Per mia parte, sentivo come un muro che ci separasse una parola a lui cara, una parola-chiave della sua vita: la parola “adorabile”. […] Pasolini trovava invece “adorabile” quel che per me dell’Italia era già straziante […] e sarebbe diventato terribile. Trovava “adorabili” quelli che inevitabilmente sarebbero stati strumenti della sua morte. E attraverso i suoi scritti si può compilare come un piccolo dizionario delle cose per lui “adorabili” e per me soltanto strazianti e oggi terribili».

Il caso Moro per Sciascia si comprende insomma attraverso le “lucciole” di Pasolini nel fatale articolo “Il vuoto del potere in Italia” dell’1 febbraio 1975 sul «Corriere della Sera», ripubblicato lo stesso anno come “L’articolo delle lucciole” negli Scritti corsari.

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