Cemento e affari

Quell’antico vizio della speculazione

ALESSANDRA LOGLISCI

«La febbre del cemento s’era impadronita della Riviera». È lapidario Italo Calvino nel celebre romanzo La speculazione edilizia. Narra con la solita, passionale, asciuttezza (dei concetti, non delle descrizioni) il fenomeno socio- economico che caratterizzò gli anni della ricostruzione, tra il secondo dopoguerra e quel boom economico della fine degli anni ’50 lontano ormai, come un vecchio rimorso. L’edificazione selvaggia; l’architettura di scarsa qualità; la distruzione del paesaggio. Ambientato negli anni ’50, in un’anonima città della Riviera ligure che egli indica con tre asterischi (oggi tanto in voga, profetico Calvino!), La speculazione edilizia coincide con la storia del protagonista, Quinto Anfossi: l’uomo rinuncia ai propri ideali per intraprendere affari nel campo delle costruzioni. I personaggi descritti nel libro, con il loro vorticoso succedersi, sono personificazioni dei “mali della società”: l’affarismo dell’imprenditore Caisotti, emblema di «un’equivoca e antiestetica borghesia di nuovo conio»; l’indifferenza dell’avvocato Canal, borghese che si oppone, ma cede; la disillusione di Quinto che cerca di mettersi al passo con i tempi. Infine, la sofferenza della madre di Anfossi nell’assistere allo scempio della speculazione. Calvino racconta la città e il paesaggio attraverso i protagonisti. Come nelle “Città invisibili”, per lo scrittore la realtà urbana non è un fenomeno fisico, ma emozionale. “Storia di un fallimento”, così l’autore commenta le “gesta” di Quinto. Fallimento. Fallimento dell’architettura, ma soprattutto fallimento della società che, abbagliata dalla chimera del guadagno facile, non riconosce più i luoghi come la propria casa e li deturpa. E così nasce «Il rimpianto che sua madre vi metteva per una parte di sé, lei stessa che si perdeva e di cui ella sentiva di non potersi più rifare, l’amarezza che coglie l’età anziana, quando ogni torto generale che in qualche modo viene a toccarci è un torto fatto alla nostra stessa vita che non ne avrà più risarcimento». Le avevano tolto il suo paesaggio e il sentimento antico che le suscitava e che sarebbe stato la salvezza; le avevano tolto i luoghi in cui aveva vissuto, inghiottiti ormai dal cemento. Uno sguardo lucido, quello di Calvino nel descrivere la distruzione del paesaggio italiano di cui oggi si parla tanto. Un paesaggio troppe volte compromesso, tanto da creare squarci profondi e irreversibili: impossibili da risarcire. Eppure, quasi dieci anni prima dei fatti raccontati nel romanzo di Calvino, in Italia, nel 1945, viene fondata l’APAO (Associazione Per l’Architettura Organica). Nomi come Bruno Zevi, Luigi Piccinato, Mario Ridolfi e Pier Luigi Nervi promuovevano una nuova filosofia del costruire foriera di una rinnovata civiltà democratica e di un equilibrio uomo-natura contro ogni sciacallaggio speculativo. Ma perché la filosofia dell’Architettura Organica non è riuscita ad arginare la speculazione? Forse la società italiana era (e resta) troppo radicata agli affari? O forse ci siamo resi conto (in molti casi) troppo tardi che la vera ricchezza è il paesaggio? La perdita di identità dei luoghi in cui gli abitanti a un certo punto non si sono più riconosciuti, ha generato un decadimento dei valori e dell’affezione a favore della febbre del guadagno con inestimabili danni al “Bel Paese”. Ed è per questo che la memoria non basta. Non bastano le malinconiche parole di un maestro della letteratura a far desistere (o quantomeno a contenere) lo sciagurato “ardore” dell’imprenditoria italiana. Ancora nell’epoca post-Covid non sono bastate memoria e parole, quando, cavalcando l’onda dei tanto “amati e odiati” bonus, le città sono state fagocitate da gru, betoniere e impalcature; da improvvisi vuoti urbani creati abbattendo interi palazzi; da improvvise apparizioni di nuovi e biancheggianti “casamenti” (per citare ancora Calvino). Per non parlare dei “restyling” standardizzati delle facciate: stessi infissi, stesse finiture; stessi dettagli, stesso omologante tedio stilistico. E quando questi interventi hanno riguardato architetture del passato? Non abbiamo forse continuato a perpetrare lo scempio? Ad “uccidere” le nostre città in nome del dio denaro? Storia di un altro fallimento, concluderebbe Calvino.

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