Orizzonti nuovi

Italo e Cesare le voci legate

Dorella Cianci

Il ventiduenne Italo Calvino arrivò a Torino nel ’45, studentello alla facoltà di Lettere e attivista del PCI, ed è lì che legò la sua voce a quella imponente di Pavese, scrittore già affermato, che lo inserì nella collaborazione con Einaudi e con la rivista «Il Politecnico». Per cinque anni intensi Calvino frequentò Pavese fino a quella tragica notizia nell’agosto del ’50, quando proprio il suicidio dello scrittore aprì una polemica mediatica che, per lungo tempo, condizionò la ricezione critica di quella preziosissima penna del Novecento. Scrisse in quei giorni Calvino: «Per me Pavese era parecchio: non solo un autore preferito, un amico dei più cari, un collega di lavoro da anni, un interlocutore quotidiano, ma era un personaggio dei più importanti della mia vita, era uno a cui devo quasi tutto quello che sono, che aveva determinato la mia vocazione, incoraggiato e seguito il mio lavoro, influenzato il mio modo di pensare, i miei gusti, fin le mie abitudini e i miei atteggiamenti». Questa lettera del 3 settembre del 1950 a Isa Bezzera condensa il rapporto fra i due, misto di amicizia privata, passione politica e contaminazione letteraria. Vent’anni dopo, Calvino – ripensando ai suoi inizi - concepì una raccolta di scritti proprio su Pavese, con testi che andavano dal ’46 al ’72. Quest’ itinerario composto da articoli di giornale, scritture editoriali, recensioni e veri e propri saggi, rimase comunque un progetto mai realizzato, perché – insieme con Giulio Einaudi – in seguito, stabilirono, con convinzione, di pubblicare esclusivamente testi di Pavese, lasciando ad altri editori gli scritti su di lui, che avrebbero potuto inquinare quella straordinaria grandezza letteraria. Oggi, anche grazie all’introduzione del bel libro della ricercatrice Francesca Rubini, per Mondadori, riusciamo ad avere un ampio spaccato di quegli scritti, a iniziare da «Pavese in tre libri» del ’46, abbozzato in occasione delle nuove ristampe di «Lavorare stanca», «Paesi tuoi» e «Feria d’agosto». La politica emerge, qui, come fattore esistenziale, fisiologico, ma anche collettivo, ed è certamente un buon modo per parlare di Calvino allievo, lettore e interprete di Pavese; in due interviste (nel ’59 a «Il Giorno» e nel ’60 a «L’Europeo»), dichiarò che la via letteraria di Cesare Pavese non ha avuto una vera e propria prosecuzione nella scrittura di altri grandi autori italiani. «Pavese – disse Calvino – è tornato a essere la voce più isolata della poesia italiana», proprio come si leggeva sulla fascetta di una vecchia edizione di «Lavorare stanca». Ed è proprio quell’opera che ci conduce al centro della visione politica pavesiana, con il tema delle lotte operaie, con la repressione fascista del movimento operaio torinese, la vita clandestina e carceraria degli antifascisti… Tuttavia Calvino era convinto che nessun critico avesse davvero individuato il senso più profondo dell’elemento politico in Pavese. Fra i fascisti da contrastare e la gioia velata della Liberazione, Calvino ha intravisto nel suo grande amico l’America e i suoi autori, come Lewis, Anderson, Lee Masters, Melville… Perché proprio l’America nel suo orizzonte letterario, individuale e politico? Come ebbe a dire Calvino stesso, quel Paese era la terra d’utopia, l’allegoria sociale, il gigantesco teatro dover rifugiarsi per sopravvivere all’oppressione del fascismo, ai concetti riprovevoli come quello di razza o di nazione. In una lettera a Esther Benitez, inviata a Parigi, nel ’71, Italo precisò: «Rispetto al gruppo dei suoi amici, tutti politicizzatissimi, Pavese era considerato “l’apolitico”; rispetto alla stragrande maggioranza degli intellettuali italiani, Pavese era un raro caso di letterato immerso nella politica come coscienza del senso storico e civile delle operazioni letterarie». Ci aveva visto giusto Calvino: come ridurre Pavese all’esempio di scrittore “impegnato”? Era una figura molto più intensa e contraddittoria: non aveva lavorato per la politica italiana, ma era stato il più attivo di tutti nel rinnovamento di un clima culturale, nella creazione di un altro linguaggio letterario. La pagina era «il suo campo di battaglia», in un pacifismo cupo quasi opposto alla “non violenza” utopica di Capitini. In tal senso, Calvino ha intravisto, in Pavese, uno sguardo a Nietzsche, mentre, con toni foschi guardava, nel ’38, alle nuvole che si addensano su tutta Europa. Scrisse infatti: «O vivere fuori del mondo (e come è possibile, se vivere vuol dire stare al mondo?) o accettarne comunque la legge della potenza […] e vivo, insomma, con la mentalità del suicida, cosa molto peggiore del suicidio consumato, che è soltanto un’operazione sanitaria». Cesare non è un intellettuale militante per Italo, non è un rivoluzionario né soltanto un lettore autentico di classici. Non è solo il maestro, né la genesi della sua mitopoiesi (peraltro molto diversa fra i due): è l’orizzonte nuovo a cui l’Italia e l’Europa voleva aprirsi guardando oltre l’oceano. E a ben pensarci – entrambi – oggi ne sarebbero amaramente delusi.

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