La riflessione

E alla fine un Muro crollò: ecco il potere dell’eresia letteraria di Calvino

Leonardo Petrocelli

Calvino non era un «irregolare», come Pasolini, né aveva i demoni di Pavese (ma i demoni, spesso, fanno la grandezza). Il che, d’altra parte, lo ha sostanzialmente protetto da tentativi di acquisizione postuma dalla parte opposta della barricata

Nei primi anni Sessanta un giovanissimo Lorenzo Mondo rinviene un taccuino, fino ad allora ignoto, di Cesare Pavese. Dentro furoreggiano considerazioni sconvenienti, poco igieniche, sulla stupidità degli antifascisti, sulle atrocità tedesche che non sono poi così diverse dai fatti della rivoluzione francese, sul sangue-e-suolo nazista come «vera espressione» finalmente rinvenuta. Fino all’eresia definitiva: «Se soltanto il fascismo troncasse veramente gli indugi e si liberasse degli sfruttatori, come non seguirlo?». Mondo porta le note alla Einaudi per consegnarle a Italo Calvino che di Pavese era sincero amico («il mio lettore ideale», dice di lui). Lo scrittore trasecola, impallidisce, si chiude in un cupo e pensoso silenzio.

Il taccuino è nelle sue mani, ora. Ma da queste, per amicizia e per disappunto, scivola in un cassetto dove dormirà trent’anni, fino cioè alla pubblicazione del «diario rimosso» sulla Stampa, diretta da Paolo Mieli, nel 1990. Tanto era cambiato in quel lasso di tempo. Niente più Unione Sovietica, niente più Partito comunista. Niente più cappe e martelli. Come scrive Marcello Veneziani, era caduto il Muro di Calvino.

Quel «muro» Calvino lo tenne su per tutta la vita convinto com’era che la politica potesse risolversi in un racconto binario, senza spigolature. Un lascito degli anni della Resistenza che suonava più o meno così: dietro il più onesto milite delle Brigate Nere c’erano i rastrellamenti, l’Olocausto, la soppressione delle libertà fondamentali. Dietro il peggiore dei partigiani, il più «ladro e spietato», albeggiava comunque la lotta per una società pacifica e democratica. Questa, in sintesi e per sua stessa ammissione, la cortina di ferro calviniana, il solco scavato con decisione da un ligure «nient’affatto leggero» come scriverà di lui Alberto Abrasino.

Pierpaolo Pasolini cercò di rampognarlo più volte definendo «una bestemmia» l’auspicio di Calvino di non incontrare mai un neofascista ed invitandolo, anzi, a sperare nel contrario. Ma il tentativo fu sostanzialmente inutile. Calvino non era un «irregolare», come Pasolini, né aveva i demoni di Pavese (ma i demoni, spesso, fanno la grandezza). Il che, d’altra parte, lo ha sostanzialmente protetto da tentativi di acquisizione postuma dalla parte opposta della barricata. Tentativi che non avrebbero di certo incontrato il suo favore ma cui, bisogna ammetterlo, alcune simbologie piuttosto lasche della sua produzione fantastica si sarebbero facilmente prestate.

Tutta la vita del Calvino politico si è svolta dunque senza grandi eresie né sconvolgenti aperture ma negli spazi «possibili» di una sola trincea scavata tra l’alfa della lotta partigiana e l’omega delle Lezioni americane (tutto si tiene). Non sfugge una certa continuità lineare: dalla Resistenza al Pci allo strappo del 1957, dopo la denuncia da parte di Krusciov dei crimini di Stalin e soprattutto dopo i fatti di Ungheria («ma continuerò a considerarmi compagno», scrisse all’Unità motivando l’addio). Sperava, come altri, che il rinnovamento del comunismo internazionale partisse dall’Italia dove, invece, tutto sfioriva in un «sostanziale conservatorisimo».

Triste per giunta, come triste era quella letteratura ufficiale che «molti nel Partito predicavano» e che invece era la tomba della felicità creativa, il martirio artistico dell’uomo libero. Non è un caso che proprio dopo lo strappo dal Pci la produzione «fantastica» di Calvino, quella sua incursione nell’irrealtà che lo portò fino ai confini dell’antiromanzo, abbia subito una prepotente accelerazione. Una sorta di «liberazione» non tanto dai temi che sempre, e con una certa coerenza, accompagnarono la sua opera quanto, piuttosto, dalla trappola neorealista che per un tempo lunghissimo ha preso in ostaggio l’immaginario italiano, gravandolo del peso, ingeneroso e grossolano, della realtà. Calvino scelse una strada solitaria, un cammino dannato sulla via della svalutazione facile e del giudizio sciatto.

Lui, Collodi, Buzzati, Avati, Sclavi. A vario titolo, e ognuno nel suo, la percorreranno in pochi. Non a caso, con risultati detonanti soprattutto all’estero: per lo sgomento di tutti, c’era vita in Italia oltre gli sciuscià e i borghesi indifferenti. Quello scavallamento che non fu mai la sua cifra politica, Calvino lo impose in letteratura ricordando all’Italia della tradizione fiabesca, una sorta di bardo ormai immusonito, come incontrare il fantastico non fosse una bestemmia.

E nemmeno un tradimento ma solo lo squadernamento di un orizzonte senza linee di frontiera fino ad allora quasi completamente precluso. Seppur diversamente da Pasolini o da Pavese, aveva abbracciato l’eresia. Alla fine, a suo modo, c’era riuscito pure lui. E con un gran fracasso. Calvino aveva fatto crollare il Muro.

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