Icaro
Calvino, il pacifista in camicia bianca
La marcia visionaria
L’immagine di Italo Calvino pacifista resta anche in chiave filmica: camicia bianca, maniche arrotolate sugli avambracci e uno striscione retto con il solo braccio destro in trazione che regge il bastone chiaro. Sul fondo bianco del tessuto risaltano i caratteri e i concetti chiave della “MARCIA della PACE”; a capo: “Per la Fratellanza dei Popoli”; infine, sulla terza riga: “PERUGIA- ASSISI”. Il potenziamento muscolare di Calvino, quindi sul lato sinistro dell’amico Pio Baldelli, è asimmetrico, ma la dicitura inequivocabile. Non resta a entrambi, più esile Calvino, specie se paragonato a Baldelli, quella mattina del 24 settembre 1961 che alternare le braccia per distribuire il peso e la responsabilità di trovarsi alla testa al corteo che prende le mosse da Perugia e dirige verso la spianata della Rocca di Assisi, crescendo a dismisura in itinere, fino a raccogliere ventimila persone armate di sole insegne pacifiste e nonviolente: reclamano all’unisono nelle varietà culturali la democrazia partecipativa accanto al vegetarianesimo, contro i pericoli imminenti della guerra nucleare, le ingiustizie e le disuguaglianze planetarie, micce accese nel focolaio dei conflitti e delle tensioni geopolitiche ovunque. Calvino e Baldelli, d’accordo, chissà, sollevano il cartello per distendere le braccia nell’arco dei quasi trenta chilometri da Perugia ad Assisi, sulla cui Rocca al tramonto saliranno e dal palco parleranno alla folla con spirito francescano consono all’ambiente. L’erta impone di riposare le braccia: Non guasta, dopo averle a lungo alzate per issare il cartello apripista, è inconfondibile l’organizzatore e cuore pulsante del progetto: il professor Aldo Capitini, filosofo nonviolento, attivista, il “Gandhi italiano”, come ormai viene universalmente riconosciuto. Come speciali dioscuri, Calvino e Baldelli, apprensivi verso la figura determinata, vegliano sulla figura dolce nell’aspetto e gracile nel fisico del buon Capitini. Intanto nel lungo e interminabile corteo, accanto a operai, gente comune, avventori provenienti con ogni mezzo non soltanto da qualsiasi regione italiana ma anche da molte parti del mondo, si mescolano appena riconoscibili altri scrittori, artisti, sindaci con i gonfaloni, quelli cioè che non temono di mostrarsi pacifisti e di metterci la faccia, fianco a fianco con intellettuali e funzionari politici, purché senza bandiere o simboli di partito. I principali partiti di sinistra e le sigle sindacali stanno appoggiando la marcia visionaria, mentre la Democrazia cristiana si è defilata. Tra di loro si riconoscono Guido Piovene e Renato Guttuso, Norberto Bobbio e Guido Calogero, Giovanni Arpino ed Ernesto Balducci, Mario Alicata ed Edmondo Marcucci, Goffredo Fofi e Walter Binni, immersi e circonfusi ciascuno a suo modo e con le proprie idee nel “Tu-Tutti” della pace e del dispositivo della nonviolenza che la attiva, secondo l’auspicio di Capitini, in alternativa all’insostenibile “Io-Tutto” emblematico invece di tutte le guerre. Le macchine da presa fanno il resto in questo seminale orizzonte di utopia trasversale: le impugnano i cineoperatori del film diretto da Glauco Pellegrini, La Marcia per la Pace. In undici minuti e mezzo di durata il bianco e nero restituisce il clima corale di quel giorno in cui la “fiumana” accoglie la componente “umana” in movimento. Il testo della voce narrante del film che esce nel 1962 rendendo questa prima marcia un’esperienza educativa e ammonitrice a tempo indeterminato, è di Gianni Rodari; mentre la canzone Dove vola l’avvoltoio? viene intonata in molti punti del corteo e si trasmette per contagio virtuoso. I versi sono sempre di Calvino, la musica da Sergio Liberovici. Nata nel contesto del collettivo “Cantacronache” fondato da compositori e letterati a Torino quattro anni prima, diventa la colonna sonora spontanea della marcia capitiniana: “Un giorno nel mondo / finita fu l’ultima guerra, / il cupo cannone si tacque / e più non sparò, / e privo del tristo suo cibo / dall’arida terra, / un branco di neri avvoltoi / si levò. / Dove vola l’avvoltoio? / avvoltoio vola via, / vola via dalla terra mia, / che è la terra dell’amor”. E ancora: “L’avvoltoio andò dal fiume / ed il fiume disse: ‘No, / avvoltoio vola via, / avvoltoio vola via. / Nella limpida corrente / ora scendon carpe e trote / non più i corpi dei soldati / che la fanno insanguinar’. / Dove vola l’avvoltoio... / L’avvoltoio andò dal bosco / ed il bosco disse: ‘No / avvoltoio vola via, / avvoltoio vola via. / Tra le foglie in mezzo ai rami / passan sol raggi di sole, / gli scoiattoli e le rane / non più i colpi del fucil’. / Dove vola l’avvoltoio... / L’avvoltoio andò dall’eco / e anche l’eco disse ‘No / avvoltoio vola via, / avvoltoio vola via. / Sono canti che io porto / sono i tonfi delle zappe, / girotondi e ninnenanne, / non più il rombo del cannon’. / Dove vola l’avvoltoio...”.