Senza quartiere

Atene, c’era una volta la solidarietà a Exarchia

Lara Laviola

La storia del quartiere, per come l’abbiamo conosciuta, è finita. Più sotto i colpi della gentrificazione che sotto quelli degli sgomberi in sé

Atene, spessi strati di storia. Atene, Kolonaki. Quartiere borghese nella parte alta della città. Usciamo di casa e scendiamo verso Exarchia, la leggenda urbana di una decina d’anni fa tra il mitologico e il preoccupato. L’avamposto europeo dell’autogestione, della solidarietà internazionale, del mutuo soccorso e delle piazze piene per le manifestazioni. 

Arrivandoci dal quartiere delle istituzioni e dei caffè ordinati colpisce l’alto numero di librerie indipendenti che costella la zona. È una cosa che deve mettere allegria visto che per PIL pro capite la Grecia è in fondo alla classifica europea. 

Camminando – perché Atene è una città per camminare – il pensiero è come sarà Exarchia nel 2025, dopo anni di governi Mitsotakis. Gli ultimi racconti che abbiamo ci dicono che con l’arrivo del leader di Nuova Democrazia, dal 2019, è cominciata un’operazione di sgombero sistematico degli spazi occupati del quartiere. L’ultima ondata di proteste di cui si è letto nei giornali risale al 2022, quando cominciarono i lavori per la fermata della metropolitana che avrebbe fatto tappa proprio a Exarchia, riconducendo il quartiere, un tetmpo inespugnabile, definitivamente nelle traiettorie turistiche. Allora le forze dell’ordine avevano preso il controllo della zona con pattugliamenti costanti, telecamere e arresti. E il quartiere aveva reagito. 

La piazza è chiusa, recintata per intero da un lungo muro di lamiere. Imbocchiamo via Tsamadou per rimanere piuttosto ammutoliti dallo scenario. Tutto è chiuso, porte, finestre, alcune anche con spranghe. La via è vuota. C’è un piccolo bar aperto, e fuori il proprietario a rassettare qualche tavolino. Si incontra subito Steki Metanaston, il centro per i rifugiati più importante della Grecia insieme a quello di Salonicco. Lì come previsto incontriamo i volontari che erano di turno quella mattina. Qualcuno di loro è fuori, fa la guardia a della strumentazione. Credo siano le uniche persone nella via, a parte il proprietario del bar e un signore a torso nudo appoggiato all’uscio di una porta più avanti. Cominciamo a parlare e la prima domanda – teneramente – è: com’era Exarchia prima di ora?

Nel 2012, quando la crisi in Grecia era all’apice, e migranti, studenti, indigenti potevano trovare rifugio qui, il quartiere traboccava di vita. Palazzi abbandonati, spesso residui di vecchie speculazioni edilizie, venivano occupati e restituiti alla collettività. Alcuni diventavano alloggi per famiglie indigenti, senzatetto, migranti. Si viveva con poco. Poveri ma felici, come direbbero i ricchi e Stefania Sandrelli in C’eravamo tanto amati. Ma ogni sera c’erano proiezioni, dibattiti, concerti punk nei sotterranei. La birra si beveva seduti sui marciapiedi, e si discuteva: di crisi, di assemblee e di scioperi. Un piccolo mondo fragile e furioso, una repubblica che pagava la sua indipendenza con i frequenti scontri con la polizia.

Oggi non c’è più bisogno di pattuglie – sebbene ve ne siano tutti i giorni a presidiare i confini del quartiere: è un posto svuotato, svuotati sono i palazzi sgomberati, pieni solo di scritte, le ultime parole rimaste a presidiare le mura, e murales e simboli che riempiono ogni centimetro come decorazioni senza sangue. Ad addomesticare il quartiere ci sono anche quei più di 1000 alloggi diventati case vacanze (su una estensione di mezzo km2) che proprio come nel resto delle città europee sottrae spazio alla cittadinanza per regalarlo ai turisti: sempre più di passaggio, con sempre meno tempo, sempre più alla ricerca di spazi “autentici” a colpi di trolley.

Intanto arriva l’ora di pranzo e vediamo la strada popolarsi di decine di persone che si muovono con gesti familiari e sembrano conoscersi tra loro. «È per la cucina solidale. Tutti i giorni viene distribuito cibo e piatti pronti a chiunque arrivi» mi dice N., volontaria dal 2019. In effetti è così, quando proviamo ad avvicinarci all’uscio del basso da cui vedo spuntare le braccia con dei pacchetti, cercano subito di darcene uno. Steki Metanaston, che era il cuore pulsante di Exarchia, oggi ne è l’ultimo battito. Resiste con determinazione portando avanti le sue attività fondamentali: la distribuzione di cibo e i corsi di lingua per gli stranieri per accedere alla cittadinanza. È tutto quello che è attorno che è cambiato.

Nelle strade vicine i bar con gli ombrelloni di marchi di birre multinazionali, che un tempo non avrebbero nemmeno varcato la soglia del quartiere, e i bar con i matcha latte come se fosse Monti ti danno il colpo di grazia. Il K-Box, altro centro sociale attivo per eventi culturali, concerti, di giorno è chiuso e stasera ha in programma la proiezione di 8 e ½ - perché anche i cineforum si sono dati una calmata e non ci trovi mica Ejzenstejn. Ormai se la fanno tutti all’Intriga, il bar più frequentato che si trova a un incrocio di strade, dove vanno un po’ tutti – artisti politici, apolitici, prepolitici - e in mezzo passano i turisti tedeschi. Una mattina ho visto lì vicino anche un gruppo di visitatori con guida, fermi per strada. Come lo avranno chiamato, il tour del dissenso? 

Dobbiamo allontanarci per un po’ da Exarchia per Omonia, il quartiere adiacente, per la verità molto più malmesso di quanto ci si aspettasse. Un po’ Atene un po’ Catanzaro Lido. Andiamo da Diporto, dove ci si dà appuntamento senza prenotare. Un tempo conosciuto come il posto dove pranzavano intellettuali, scrittori, poeti, oggi notiamo solo che il proprietario è arrabbiatissimo e se non ti ci portano dei greci ti tratta male. Sarà questa rabbia la sua ultima resistenza all’overtourism?

Qui incontriamo A., un attivista dei primi anni 2000, oggi, a dire il vero, stanco e a riposo. Racconta che oggi i movimenti che animavano Atene ed Exarchia non sono scomparsi del tutto, ma si sono ritirati ai margini. Le azioni sono più rare, meno visibili e spesso relegate a piccole cerchie. Ma l’epoca delle grandi mobilitazioni popolari – afferma con certezza, e ribadisce, a mia esplicita domanda – è tramontata.  «Ricordo che in quei mesi vivevamo tutti insieme, e ci dicevamo a vicenda: “Resta, resta anche domani, anche se perdiamo”», «Giocavate a perdere?»  butto lì io, pentendomi subito della sfacciataggine. «Ma sì, e lo sapevamo» ammette candidamente, lui uomo di mondo molto più di me. 

La storia del quartiere, per come l’abbiamo conosciuta, è finita. Più sotto i colpi della gentrificazione che sotto quelli degli sgomberi in sé. L’attività oggi si è spostata nello spazio Notara 26, al Pireo, che ha aperto a settembre del 2015, proprio dopo l’arrivo di ondate di migliaia di rifugiati approdati all’isola di Lesbo. Da allora fino ad oggi l’edificio ha ospitato quasi 4000 persone. Notara 26 nasce anche perché la grande ondata migratoria ha creato frizioni interne agli stessi movimenti, che proprio a causa della imponenza del fenomeno non potevano farvi fronte con sistemi come quelli di Exarchia - non sempre attrezzati, diciamo. 

Così Exarchia, che sembrava quasi una parola magica, oggi a tratti crea imbarazzo in chi ancora la frequenta – quasi quanto quell’unico negozio di un reduce degli anni ‘80 che vende magliette che inneggiano alla rivoluzione e spara nelle casse Emerson, Lake & Palmer (credo fosse Pictures at an Exhibition). Che botta. Ma andiamo avanti. Il quartiere dei novecenteschi anarchici è oggi un quartiere per turisti forse solo un po’ meno beceri di altri. Vive nei racconti, nei ricordi, nelle cicatrici. Forse, in qualche stanza segreta, qualcuno trama ancora. Il resto è tutto un Airbnb sopra le barricate. Il mercato ha preso il posto del sogno, come sempre accade. Alcuni, diventati padri, madri, sono andati a lavorare. Altri hanno trovato rifugio in cause nuove, più dolci, più accettabili: il clima, i diritti civili, l’arte. E altri ancora - i più romantici, forse – semplicemente sono spariti.

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