Cibocrazia
La rivoluzione a tavola: consumi e politica
“La rivoluzione non è un pranzo di gala”, insegna Mao. Vero, ma le rivoluzioni, oggi, passano anche dalla tavola. Buon appetito
La post-modernità ha avuto il merito, o forse il demerito, di confondere quelle poche certezze che ci portavamo dietro dal vecchio mondo. La prima, più che conclamata, era quella di incarnare una società di consumisti compulsivi che avevano rinunciato a trovare il senso nelle grandi narrazioni del passato e avevano pensato bene di darselo da soli, il senso, comprandosi un’identità costruita sulle cose. Montagne di oggetti a cui affidare il racconto di sé. Oggi quel consumo è cambiato anche se gli esperti non sembrano accorgersene: non è venuta meno la mania, ci mancherebbe, semplicemente si è rarefatta, virtualizzata. Le camere degli adolescenti sembrano stanze di samurai: non c’è niente. Tutto ruota intorno a uno schermo e pure piccolo. Solo che in quello schermo c’è un universo di contenuti, video, giochi, libri, foto, app, intelligenze artificiali. Quello che era fuori è entrato dentro. C’è ma non si vede.
E cosa è rimasto all’esterno? Ciò che ancora non si può chiudere in un telefono. Due cose, sostanzialmente: l’abbigliamento e gli alimenti. Le ultime frontiere, quasi nostalgiche, del consumo materiale che fu. Non è un caso che l’accademico Vanni Codeluppi dedichi a questi comparti gli unici due focus del suo manuale Il primo libro di sociologia dei consumi (Einaudi). Ed, in effetti, già le prime pagine aprono un mondo. Il cibo è una galassia. Culturale, innanzitutto, con buona pace di Indro Montanelli che accusava gli italiani di non saper dove mettere la cultura e dunque di piazzarla solo dove non c’entra. Ma la cultura del cibo esiste, così come la sua dimensione sociale. «Le abitudini alimentari producono senso e coesione», ammoniva l’antropologo Claude Lévi-Strauss anche perché smuovono un orizzonte innanzitutto simbolico. Mangiare vuol dire “incorporare”, cioè, in qualche modo, diventare ciò che si mette dentro.
La rivoluzione dei consumi industriali, dagli anni Sessanta in poi, aveva fatto diventare quello del cibo una sorta di Luna Park stroboscopico senza più riferimenti certi. Una mano sullo scaffale del supermercato terremotava secoli di usi contadini e abitudini ancestrali. Il tempo della “gastro-anomia”, per dirla con Claude Fischler, dell’assenza cioè di norme regolatrici del mangiare. Una condizione che si reitera fino ad oggi, nella canea che Michel Maffesolì definisce da anni “il tempo delle tribù”, l’epoca delle frange massimaliste spesso in eterna contesa fra loro: vegani, fruttariani, carnivori, i fanatici del digiuno intermittente e quelli del food-porn. Tutti coltivatori (in)diretti, chef improvvisati, nutrizionisti della domenica. Non cambia molto. È sempre l’anomia, è sempre il caos. È sempre cercare di definire se stessi attraverso il consumo: le etichette ci confortano, sono appigli sulla parete liscia che tentiamo di scalare.
Ma c’è di più. Oltre che identitario, il cibo è stato anche caricato di un significato politico: non avendo la più pallida idea di cosa sia una rivoluzione, che presuppone innanzitutto un pensare (e un agire) collettivo, l’uomo occidentale si è convinto – o, meglio, è stato convinto - che a smuovere il mondo siano le scelte individuali. “Il cambiamento parte da te”, è lo slogan del grande inganno denunciato da Fabio Ciconte, scrittore ed esperto di filiere alimentari, nel volume Cibo è politica (Einaudi). Si enuncia qui una verità fondamentale: «Non sarà la nostra azione individuale a metterci in salvo». Verrebbe da dire che, finalmente, qualcuno l’ha detto in un mondo dove tutto si scarica sull’omino che guida, fa la spesa e paga le bollette, a cominciare dai costi di quel cambiamento climatico così discutibile (eufemismo) nel suo racconto e nella sua gestione. È la tua Panda a distruggere il pianeta, mica le multinazionali. Ma il “cibo politico” non è solo una questione di emergenza ecologica: è tutela della biodiversità, lotta agli sprechi, riduzione delle disuguaglianze, tutela delle tradizioni, prevenzione sanitaria, contenimento del delirio manipolatorio delle scienze. In una parola recupero di quel senso del limite, di quel “secondo misura” (katà métron) che è stato per secoli fondamento, poi smarrito, della sapienza occidentale. Una montagna da scalare che non si scala in solitaria. “La rivoluzione non è un pranzo di gala”, insegna Mao. Vero, ma le rivoluzioni, oggi, passano anche dalla tavola. Buon appetito.