Icaro
Amici miei: la commedia impietosa
A cinquant’anni esatti dalla sua uscita in sala Amici miei dimostra come l’Italia abbia trovato da sempre nella commedia, possibilmente impietosa, il suo specchio più attendibile
A cinquant’anni esatti dalla sua uscita in sala Amici miei dimostra come l’Italia abbia trovato da sempre nella commedia, possibilmente impietosa, il suo specchio più attendibile, sulla pagina, sulla scena e sullo schermo senza soluzione di continuità. E se il nostro è sempre di più un Paese che anche senza l’intelligenza artificiale riesce a far ridere, forte di una sua demenza naturale spesso e volentieri istituzionalizzata, lo deve anche alla immediatezza lessicale del neologismo “supercazzola”: Amici miei l’ha messo in circolo, e senza asterischi censorii merita di essere considerato non più un’espressione ma la sostanza imbarazzante di ogni discussione fondata sul nonsense voluto odierno, quindi la materia principe di ogni discorso politicamente corretto.
L’avrebbe dovuto dirigere Pietro Germi, ma cedette il posto, ormai malato, all’ex suo assistente di un tempo, Mario Monicelli, diventato frattanto uno dei maggiori registi di commedie italiane, seriamente parlando, ridendo e non scherzando. E Monicelli dal canto suo detestava l’attributo “all’italiana” come dispregiativo, visto che anche Amici miei, al di là dei personaggi reali d’ambito toscano non ignoti scelti come modelli, proveniva da una lunga tradizione di novellieri di quella regione, da Boccaccio a Pulci, da Aretino a Lasca. Ma è anche vero che se alla Toscana si sostituisce il Veneto e a Firenze Treviso, ogni buon intenditore, spettatore o studioso, riconosce in Amici miei la mano a monte dell’autore di Signore & signori.
Al di là di scelte stilistiche che ne contraddistinguono le rispettive mani e parti registiche in commedia, il passaggio di consegne forzato dal funesto destino da Germi a Monicelli si è rivelato indolore e consono, poiché il secondo realizzerà nel 1982 Amici miei – Atto II, cedendo infine il testimone tre anni dopo a Nanni Loy per Amici miei – Atto III. Poiché, come tutte le commedie, tre sono gli atti, anche la saga di Amici miei, inaugurata nel 1975, non si avventura oltre il 1985. E lascia in eredità una quantità incalcolabile di “zingarate”, altro lemma che diventerà parte integrante del linguaggio corrente nazionale, indicando una prassi maschile, anzi maschilista di trasgredire, godendosi la vita nella certa aspettativa mortale; dove la libertà è sintomo di frustrazione e la cattiveria una forma di protesta di chi però nei ranghi, in posizioni apicali ci sta e sa che ne uscirà solo in posizione orizzontale. Non per niente sono tutti più o meno maggiorenti o sistemati i misogini protagonisti, l’architetto Melandri, l’illustre clinico Sassaroli e il barista-ristoratore Necchi, o il giornalista Perozzi. Tutti ad eccezione del nobile spiantato Mascetti, che ha conosciuto tempi migliori ed è ora alle pezze. Poco importa se nel cast originariamente ci sarebbero dovuti essere Marcello Mastroianni e Raimondo Vianello. Quel che conta è che la squadra composta da Ugo Tognazzi, Adolfo Celi, Philippe Noiret, Gastone Moschin e Duilio De Prete resta memorabile, contemperando ogni volta un lutto o una nota cupa, che è la chiave di volta di ogni miope gesto che cerca scampo nel divertimento alle spalle degli altri.
Ci si diverte a veder vessati cinicamente i mediocri e i benpensanti, ma è implacabile la scure di Monicelli, ricevuta in dote da Germi, con l’apporto insostituibile dei cosceneggiatori Benvenuti e De Bernardi assieme a Tullio Pinelli. Non c’è scampo né speranza nel piacere impuro di burlarsi del prossimo in continuazione, come in ogni parabola devastante dove tutto si esaurisce in una malinconia insopprimibile, misura per misura, come i capolavori insegnano.
Oggi le ragioni della commedia italiana, alta o bassa o per meglio dire alta nella sua programmatica bassezza, sopravvivono nelle commemorazioni, con libri che ne salmodiano i fasti pregressi. Ultimo in ordine di tempo, con un record di testimonianze combinate è, emblematico nella sua legittima tifoseria sin dal titolo e indipendente a livello editoriale, Evviva la commedia all’italiana anni 70/80 di Antonio Santoriello (153 pagine, euro 15,90), che allinea nell’ordine e con una discreta rappresentanza pugliese le interviste a Milena Vukotic, Pippo Franco, Leo Gullotta, Maurizio Mattioli, Alvaro Vitali, Adriana Russo, Mauro Di Francesco, Gianni Ciardo, Maurizio Micheli, Andrea Roncato, Francesca Antonaci, Giuseppe Pambieri, Pippo Santonastaso, Mirella Banti, Lucio Montanaro e Nikki Gentile. Chiunque abbia visto commedie, trasversali nella storia del cinema italiano, ma feroci particolarmente dagli anni sessanta, con una recrudescenza spinta doverosa negli anni settanta e ottanta ricostruiti da Santoriello su base orchestrale di memorie dirette, comprende anche perché l’Italia era e tragicomicamente è oggi più che mai il paese di Amici miei.