lo scrittore
Tutti i lacci della sicilitudine
Pensate possa trascurare, nella modesta digressione proposta a voi lettori di “Icaro”, la scrittura di Andrea Camilleri? Il cenno è breve ma desidera esser solido.
Mentre scrivo di Andrea Camilleri, tornano alla memoria le parole spese dall’autore siciliano all’Università La Sapienza di Roma, nel dicembre del 2000. Presentando la Biografia del figlio cambiato, libro nel quale racconta la vita di Luigi Pirandello come un’Odissea di pura tradizione orale tramandata a un amico, senza l’assillo di fonti critiche, il «papà» del commissario Montalbano esordisce pescando un ricordo: «Ho pensato a lungo prima di scrivere. Mi veniva in testa una frase di mia madre che ripeteva spesso quando mi lanciavo in imprese di dubbio risultato: ma perché ti metti in questi lacci, perché ti vuoi infilare in una situazione difficile?».
La risposta non deve sorprendere. Va oltre le parole di Camilleri all’Università, a proposito del bisogno di scrivere di Pirandello, dell’urgenza ravvivata dall’accostamento alla famosa espressione crociana sul Cristianesimo: scrivere di Pirandello «perché non possiamo non dirci pirandelliani». Camilleri è stato e rimane l’emblema – come Pirandello, come Leonardo Sciascia - di quella «sicilitudine» vissuta anche in ambito letterario, soprattutto in ambito letterario, «con difficoltà» (l’espressione venne coniata dallo stesso Sciascia nel 1989). Ma, come in una Odissea artistica, Camilleri trasforma la difficoltà in talento, riuscendo così a sciogliere i lacci che tanto angustiavano la madre.
Qui entra in gioco il teatro. Meglio, la definizione di teatro che Leonardo Sciascia offre nell’Alfabeto pirandelliano. L’autore del Giorno della civetta riprende il poeta argentino Jorge Luis Borges. Questi immagina il raffinato pensatore di lingua araba Averroè, vissuto nel XII secolo, smarrito di fronte alle parole «tragedia» e «commedia» rinvenute durante la traduzione della Poetica di Aristotele. Non comprende il loro significato perché, ricorda Borges, l’Islam «non aveva nozione del teatro». Pirandello, invece, chiosa Sciascia, citando il grande regista teatrale russo di origini armene Georges Pitoëff, «era il teatro» perché «il teatro era in lui». Camilleri non era il teatro come Pirandello, ma certamente il teatro era in lui: lo ricorda Pasquale Bellini, citando la gloriosa stagione barese al sole fecondo di Orazio Costa. Di più: in Camilleri il pensiero teatrale, persino il gesto teatrale, diventano sublimi gesti di vita, sciogliendo i lacci di ogni sicula difficoltà del vivere.
Pensate possa trascurare, nella modesta digressione proposta a voi lettori di “Icaro”, la scrittura di Andrea Camilleri? Il cenno è breve ma desidera esser solido. Maestro del racconto? Certo. Erede di una sperimentazione linguistica di nobile lignaggio pensando al Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda? Indubbio. Camilleri scrive di illustri – Caravaggio (e nel libro Il colore del sole si legge tutto il suo inqueto rapporto con l’arte) – e di anonimi: Ambrogio Sparacino, con la sua tripla vita tra agitazioni bracciantili e soldati riluttanti: il perfetto antieroe. Quanta vita letteraria fuori dal pianeta Montalbano. Serve uno scarto finale anche drammatico. Un colpo di teatro. Risfogliamo le pagine de I tacchini non ringraziano, raccolta di brevi racconti dedicati agli animali. Il bestiario di Camilleri produce un pensiero: «Se veramente un giorno riusciremo a sapere quale opinione hanno di noi gli animali, sono certo che non ci resterà da fare altro che sparire dalla faccia del pianeta, sconvolti dalla vergogna». Apocalisse Camilleri.