Quel fantastico teatrino

Il burattino senza fili raccontato a mio figlio

Alfonso Musci

«Occhiacci di legno perché mi guardate?» dice Geppetto dopo aver dipinto due occhi che cominciano a roteare

«Occhiacci di legno perché mi guardate?» dice Geppetto dopo aver dipinto due occhi che cominciano a roteare. Frase spiegata, almeno a me, da Carlo Ginzburg nelle sue riflessioni sulla ‘distanza’ e lo sguardo. Pinocchio era una storia dormiente in una mia vecchia foto da bambino spaesato dal grande pescecane di pietra nel parco di Collodi. Fino a quando le fiamme della stufa ripresero a bruciargli i piedi, per opera di mio figlio, cinque anni, che del burattino di anni 140 e più (1883-2023) vuol sapere e ripetere tutto.

Pietro nacque un 25 febbraio. Parenti e amici sottolinearono ironici la coincidenza con Benedetto Croce nato lo stesso giorno del 1866. Col filosofo lo assillai da subito regalandogli una larga moneta di bronzo col ritratto in rilievo ricevuta dalla Fondazione Sipari di Pescasseroli per i 150 anni dalla nascita. E quando attorno a noi quasi tutto cominciò a riparlare di Pinocchio (evviva gli anniversari!) goffamente ripetei la frase bella e tautologica che il filosofo dedicò a Collodi nel 1937: «Il legno, in cui è tagliato Pinocchio, è l’umanità ed egli si rizza in piedi ed entra nella vita come l’uomo che intraprende il suo noviziato: fantoccio, ma tutto spirituale». Non ebbe successo ma quel pezzo di legno cominciò a bussare alla nostra porta.

La folgorazione fu con la versione Disney (1940), un pinocchio ricco e in panni tirolesi, ma seguirono, grazie a Raiplay e Netflix, Giulio Antamoro (1911) con Polidor nei panni del burattino, Le avventure di Pinocchio (1947) di Giannetto Guardone, il Comencini (1972), quelli di Benigni (2002) e di Garrone (2019) e soprattutto i bellissimi di Enzo D’Alò (2012) e Guillermo Del Toro (2022) che ha anche il merito di parlare del fascismo ai bambini. E che dire dei libri? Decine di edizioni. La più bella senza dubbio l’anastatica del 1883 con i disegni in bianco e nero di Enrico Mazzanti. E del teatro? Vero motore della curiosità, dove Pinocchio regala ancora il meglio di sé. Dalle comiche marionette dei Pupi di Stac alla paurosa versione della compagnia Zaches che lo costrinse nella scena dell’impiccagione a fare avanti e indietro dal bagno con la mamma per far pipì dalla paura. Ormai la passione per Pinocchio è diventata la formazione e la trasformazione di Pietro. Una via maestra per la lettura, l’ascolto, la memoria, il disegno, il mimo, la lingua toscana, i sentimenti morali.

Mi resi conto della magia in atto quando dal mare riportammo a casa un tronco di pino umido e malconcio. Da allora non c’è bosco o catasta che non ci renda un legno da portare a casa e in cui si intraveda discosto un naso, un occhio, una bocca. Anche il nostro parlare si è fuso con quello di Collodi, ci interrompiamo a vicenda con apostrofi, apologhi e paradossi tratti ora da Geppetto ora da suo figlio, dal filosofo grillo come dal filosofo tonno. «Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina, insegno l’abaco alle formicole, povero grullerello, chetati grillaccio del mal’augurio, mangiapane a ufo, quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!». Tra le frasi più magnetiche ci sono senza dubbio le prime pronunciate dalla “vocina sottile sottile” del ciocco ancora non sbozzato sotto i ferri da falegname: «Non mi picchiar tanto forte, bravo polendina, tu mi fai il pizzicorino sul corpo» e «birba d’un figliuolo». Per finire a ogni replica nel piccolo teatrino domestico con la più rassicurante di tutte. L’autobiografia del burattino divenuto bambino: «Com’ero buffo, quand’ero un burattino! E come ora son contento di esser diventato un ragazzino perbene!».

Devo molto a Pietro. Vado pensando che Croce scrivendo di Pinocchio aveva forse in mente Immanuel Kant: «Da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di perfettamente dritto». Grazie Collodi.

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