la recensione
L’icona dei poveri e la destra del dissenso
Le presidenziali americane non sono solo lo scontro tra il repubblicano Donald Trump e la democratica Kamala Harris
Le presidenziali americane non sono solo lo scontro tra il repubblicano Donald Trump e la democratica
Kamala Harris: nel conflitto elettorale ci sono specificità che non possono essere sovrapposte alla dialettica italiana, e non è poi così automatico definire la destra di Giorgia Meloni in linea con il trumpismo (la leader, del resto, è stata sempre in sintonia con il dem Joe Biden...).
L’attuale stagione della destra americana è altro rispetto alla ispirazione sociale dei patrioti italiani e per comprendere questo percorso ci offre uno spaccato politologicamente rilevante il saggio del candidato vicepresidente trumpiano J.D. Vance: Elegia americana, edito da Garzanti (pp. 254, euro 9,90) negli anni scorsi e ora ristampato da Solferino con introduzione di Federico Rampini, descrive in maniera immediata le pulsioni del sottoproletariato bianco, critico del globalismo perché escluso dal grande ballo o dal ricco banchetto a cui partecipano i bianchi cosmopoliti delle metropoli e le coccolate minoranze, per le quali l’America resta ancora prodiga di opportunità.
Questo “memoir” ha poco a che vedere con la destra erede della Fiamma (nel 1989 Gianni Alemanno e
Fabio Rampelli furono arrestati per una rumorosa contestazione durante la visita a Roma del presidente Usa Bush senior), ma fa risaltare il sentimento di esclusione rispetto alla cultura mainstream di larghe fasce dell’America profonda, che hanno trovato nel trumpismo una speranza di riscatto, o quantomeno uno strumento per difendersi dal pensiero unico dominante. Vance descrive il disorientamento degli americani di origine scozzese dei monti Appalachi, partendo dalla sua infanzia e del contesto familiare a Middetown, Ohio, tra povertà, famiglie corrose dal nichilismo che sfocia nelle droghe e crisi di valori. L’autore è icona di un inatteso riscatto, si laurea a Yale, ma resta scettico sulla gestione degli squilibri sociali, su ceti foraggiati dal denaro pubblico e così disabituati a rimboccarsi le maniche e a contribuire al bene comune. Non a caso tratteggia con crudezza come anche lavori ben retribuiti fossero svolti con superficialità da giovani indigenti, incapaci di comprendere la sfida aziendale, anche se con una moglie incinta e tanti debiti da onorare.
Di fatto Vance ha profili identitari, difende i bianchi poveri, spiega come nasce l’ostilità per gli immigrati irregolari che falsano le dinamiche del mondo del lavoro e fanno saltare ogni schema salariale ma, al tempo stesso, è anche sedotto da pulsioni ferocemente antistataliste. In questa visione dirompente esalta dinamiche familiari e, per un certo verso, etnico-comunitarie: il ruolo della famiglia, gli insegnamenti dei genitori e dei nonni, il ruolo dell’esempio e del sacrificio assimilato dai modelli scelti.
Vance ha scritto Elegia americana a 36 anni. Adesso, dopo esser stato un Marine in tanti contesti di guerra, e’ un quarantenne di successo, papabile vicepresidente degli Stati Uniti in caso di nuovo exploit di The Donald. Per paradosso può essere considerato un caso di alfabetizzazione politica di un dissenso
variegato rispetto alle classi dominanti occidentali. Dai suoi scritti si può ben comprendere perché un
tedesco su tre vota un partito identitario osteggiato da tutto il sistema o perché in Austria i nazionalpopulisti sono la prima forza alle politiche: c’è un pezzo di Occidente che non accetta diktat pro immigrazione, pro gender, si ribella rispetto al capitalismo apolide che chiude le fabbriche per delocalizzare e fare maggiori utili. E per ora protesta scegliendo partiti radicali e nazionalpopolari. Che non offriranno soluzioni gradite ai politologi à la page, ma rappresentano uno dei volti della nostra post democrazia, da comprendere non rifugiandosi nelle categorie chic del nero eterno di Umberto Eco.