intervista alla Gazzetta

Eni, Descalzi: investiremo al Sud 50% della spesa in Italia

GIUSEPPE DE TOMASO

di GIUSEPPE DE TOMASO

L’Eni è l’Italia nel mondo. Come la pizza, come Sophia Loren, come la Ferrari. Da sempre desta ammirazione, invidie e gelosie varie. Il dc Enrico Mattei (1908-1962), protagonista della Resistenza, venne pregato di smantellare un piccolo carrozzone di nome Agip. Invece, Mattei lo trasformò in un protagonista - di nome Eni - della scena energetica mondiale.

Oggi il numero uno del «cane a sei zampe» è Claudio Descalzi, classe 1955, laurea in fisica, manager Eni da quando aveva 26 anni. Ha fatto tutta la carriera all’interno del Gruppo. È stimato. Conosce ogni virgola dell’mega-impresa che dirige. Lo abbiamo intervistato a Roma, all’Eur, nella sede capitolina della multinazionale. Ovviamente, il Sud - con la Basilicata, la Sicilia e la Puglia - è il punto di partenza della conversazione. L’ad di Eni conferma gli impegni sottoscritti e sottolinea il nuovo corso verde del colosso. Il biosviluppo è la strategia. Il dialogo con istituzioni e popolazioni del territorio lo strumento per comunicare la realizzazione delle opere.

Dottor Claudio Descalzi, l’Eni è fortemente presente nel Sud Italia, dove dà lavoro a circa 23mila persone (17.600 di indotto e 4.790 di personale diretto). Continuerete a investire o siete delusi per i problemi di varia natura che avete affrontato in alcune aree?

Nessuna delusione. Siamo una società italiana, nata con lo scopo di assicurare l’approvigionamento energetico all’Italia.

Se il fondatore Enrico Mattei avesse scavato in Basilicata anzichè nella Valle Padana, forse sarebbe cambiata la storia economica dell’Italia.

La storia dell’Eni è nata col gas, non con il petrolio. E in Basilicata c’è il petrolio.

Continuerete, dunque, a investire nel Sud?

L’Italia è il secondo Paese al mondo in termini di investimenti, dopo l’Egitto. Nel triennio 2013-2015 l’Eni ha speso nel Sud circa 2,1 miliardi di euro pari al 41% del totale di spesa in Italia (5,1 miliardi). Nel quadriennio 2016-19 prevediamo di investire il 50% nelle regioni del Sud, soprattutto in Sicilia e Basilicata. In Basilicata si concentra circa il 7% della spesa totale italiana e il 18% degli investimenti upstream (estrazione e produzione) in Italia, valore che potrebbe crescere moltissino nei prossini anni.

Sono investimenti che hanno creato problemi con le popolazioni e istituzioni locali.

Tutti gli investimenti devono essere realizzati attraverso un confronto continuo con i territori, spiegando da sùbito cosa s’intende fare e quale sarà il ritorno per le popolazioni. È in corso un processo di trasformazione delle nostre attività, che va al di là degli investimenti upstream in Basilicata. Nel resto del Sud l’Eni significa raffinazione, chimica, bioagricoltura. Cerchiamo di non dismettere alcune attività, ma di trasformarle in funzione delle nuove tecnologie e del rispetto ambientale.

È quanto avete avviato in Sicilia.

In Sicilia si concentra il 30% delle spese previste in Italia nel piano 2016-2019. In particolare, grazie al Protocollo di Intesa, a Gela è destinato il 23% degli investimenti. E ciò nonostante le perdite di Rage del 2015 (-178 milioni di euro) e Enimed (-50 milioni). In Sicilia l’Eni sta trasformando una raffineria tradizionale in una raffineria verde. È stato già fatto a Venezia. È stato avviato, questo processo di biotrasformazione, anche nella chimica e nella raffinazione. Questa è la nostra strategia, la nostra visione. Inoltre siamo particolarmente impegnati nella riconversione dei siti dismessi e a noi assegnati (4mila ettari), grazie all’investimento nelle energie rinnovabili.

Come procede l’attuazione del Protocollo su Gela?

Bene. Secondo programma. L’ultimo passo avanti si è concretizzato con l’avvio dei lavori di riconversione della raffineria a ciclo tradizionale in raffineria verde lo scorso mese di aprile. È un investimento che supera i due miliardi. I cantieri avviati sono 79, di cui 42 già completati. Per la realizzazione del complesso delle attività sono state sinora impiegate quasi esclusivamente risorse umane dell’indotto locale: 1.062 addetti nel 2015 rispetto ai 900 previsti; più di 1.200 nel 2016.

E il risanamento ambientale come procede in Sicilia?

Lo sforzo di Eni a Gela è davvero notevole: dalla firma del Protocollo sono stati spesi circa 65 milioni e avviati 26 cantieri, di cui 6 già completati, nonostante i ritardi nel rilascio delle autorizzazioni. Quindi, anche sul piano delle bonifiche ambientali, le attività procedono in linea con quanto previsto dal Protocollo del novembre 2014. In sintesi: riconversione industriale verso un’industria meno impattante. Il che significa: più occupazione e più tecnologia.

Ma cosa serve per raggiungere questo obiettivo?

Bisogna saper comunicare quello che si fa. L’industria pensa che le cifre siano sufficienti. Invece bisogna indicare in dettaglio la strategia. Bisogna interloquire con governi, amministrazioni e popolazioni. La lezione della Val d’Agri è stata assai cara.

Cosa vi ha insegnato?

Non è stato compreso lo sforzo tecnologico da noi prodotto. Bisognava spiegare tutto. Ora ci proponiamo raccontare con la massima trasparenza e chiarezza, anche sulla Rete, tutto quello che facciamo e faremo. Si potranno porre domande direttamente sul sito dell’azienda.

Eni si confronterà con il movimento ambientalista lucano?

Certo. Daremo a tutti spiegazioni dettagliate. Giudico corretta e salutare un’interlocuzione attenta su questi temi. Guai a coloro che se la cantano e se la suonano da soli. Da sempre trasparenza e dialogo sono per Eni elementi alla base di un solido rapporto con gli interlocutori locali. Per questo abbiamo deciso di inviare nelle case dei cittadini della Val d’Agri la newsletter Eniday Val d’Agri, un’informazione periodica per raccontare quello che facciamo e per aggiornare tutti sulle nostre attività.

In Basilicata l’accusa ricorrente alle compagnie petrolifere sostiene che la regione non ha superato il sottosviluppo, e che l’opzione energetica ha creato più problemi che soluzioni. Non si è verificato il trascinamento industriale auspicato.

Chi dice questo può avere pure ragione, ma bisogna riconoscere l’avvenuta nascita di un indotto lucano, non solo forestiero. Eni ha avviato programmi di formazione (progetto Alternanza Scuola/Lavoro), ma bisogna partire dalla considerazione che l’upstream è un’attività capital intensive, non labour intensive. Non è come la chimica, o la raffinazione. È chiaro però che si pagano royalties e si crea indotto. La Basilicata oggi è quella che era la zona di Ravenna decenni addietro, dove nacquero imprese di grande importanza, nel turismo nelle tecnologie avanzate. Imprese poi affermatesi in tutto il mondo.

La Basilicata ha questa possibilità?

Sì, ce l’ha. Intensificheremo i nostri programmi sull’integrazione alternanza scuola-lavoro. Ma con l’aiuto di Stato e Regione bisogna agevolare le start-up, le attività complementari al mondo energetico. Noi siamo pronti a collaborare.

Non sono modeste le royalties che le compagnie petrolifere pagano alla Basilicata?

Non sono così modeste. Quando il petrolio era a 100 dollari il barile le royalties erano in Italia di 325 milioni l’anno (112 in Basilicata, 44 in Sicilia, il resto altrove). La royalty è proporzionale al prezzo del petrolio. Oggi in Basilicata la cifra è scesa a 61 milioni. Poco, tanto? È comunque una cifra importante. Che - senza voler suggerire nulla alla politica lucana - potrebbe essere impiegata per creare un network di imprese focalizzate sull’energia. Il modello ravennate è un buon modello. Vorrei osservare, inoltre, che a causa del fermo del Cova di Viggiano le royalties per il 2017 potrebbero dimezzarsi.

Il petrolio non è popolare. In Basilicata investirete sulle rinnovabili?

Sì, nei siti bonificati lanceremo comparti di energie rinnovabili, a cominciare dal fotovoltaico e dal solare a concentrazione. Si può puntare anche alla diversificazione industriale, cioè a un’espansione della chimica verde per l’agricoltura. In Sicilia, nel Protocollo, questo obiettivo è già formulato.

In Basilicata, è aspro lo scontro sulle cause e sul numero delle patologie tumorali. Compagnie petrolifere sotto accusa. Il territorio è preoccupato.

Capisco le perplessità e le preoccupazioni. È giusto che arbitri neutrali facciano le dovute analisi. Io scrissi una lettera in cui dicevo “Non siamo avvelenatori”. Esprimevo il mio stato d’animo. Negli ultimi anni, in particolare, abbiamo intensificato i nostri sforzi su salute e ambiente. Siamo risultati i migliori, nelle più autorevoli certificazioni internazionali. Quella ambientale è una nostra preoccupazione quotidiana. Sono crollati i nostri indici di incidenti per milioni di ore lavorate (meno casi che nel terziario). Sono precipitate le emissioni. Insomma, in Basilicata abbiamo dato il massimo. Gli esperti neutrali ci hanno dato ragione. Di qui la mia reazione, qualche mese fa. Non è solo questione reputazionale, ma sostanziale. Se l’area HSE (salute e ambiente) produce risultati, gli effetti positivi si estendono sull’intero gruppo.

Dopo il dissequestro dell’impianto Eni di Viggiano, lei disse che entro agosto l’attività sarebbe ripartita al completo. Qual è la situazione?

Abbiamo riaperto il Centro Olio Val d’Agri e stiamo aumentando gradualmente la produzione. Il che giova anche alla raffineria tarantina. Speriamo di raggiungere quanto prima le condizioni di regime precedenti al fermo. Siamo molto soddisfatti perché questo ci consente di salvaguardare circa 3.500 posti di lavoro, tra diretti e indiretti.

Problemi con i periti nominati dai pm?

Abbiamo avuto un periodo di cooperazione importante con gli esperti della magistratura che ci ha consentito di trovare soluzioni tecniche che sono state accolte dalla procura. Stiamo offrendo la massima attenzione all’autorità giudiziaria e attendiamo l’esito degli accertamenti, nella certezza di aver sempre agito nel rispetto dell’ambiente e della salute. tutti i dati e gli studi che abbiamo condotto ci spingono a rassicurare sulla sicurezza delle nostre attività, emissioni incluse.

Quali sono stati i costi della modifica?

Le modifiche realizzate da Eni riguardano una variazione all’impianto in grado di determinare la separazione della produzione di gas da quella di olio e permettere di continuare nella reiezione delle acque di strato. Hanno comportato un investimento di circa 9 milioni di euro.

Quanto è la perdita per Eni?

In questi mesi di fermo abbiamo perso circa 250 milioni di euro e circa 8,1 milioni di barili equivalenti.

Alla luce dell’inchiesta della Procura di Potenza chiuderete il pozzo di re-iniezione Costa Molina 2?

Eni in Val d’Agri opera nel rispetto e salvaguardia dell’ambiente attraverso l’adozione di tecnologie d’avanguardia e un controllo capillare del territorio, effettuato attraverso una rete di monitoraggio unica al mondo. Le attività del Cova e le nostre pratiche di trattamento delle acque di produzione e di re-iniezione nel pozzo Costa Molina 2 sono state oggetto di un numero enorme di autorizzazioni da parte degli organi competenti. La re-iniezione in giacimento delle acque di strato costituisce il metodo più sicuro e sostenibile per riposizionare le acque di strato, separate dagli idrocarburi, nelle stesse formazioni geologiche dalle quali provengono ed è infatti applicata al 90% degli impianti a terra nel mondo. Chiudere il pozzo di re-iniezione Costa Molina 2 significherebbe trasportare tutte le acque di produzione su autobotti per il loro smaltimento presso impianti autorizzati. Ai ritmi di produzione questo comporterebbe l’emissone di 18,5 migliaia di tonnellate. L’equivalente delle emissioni di Co2 di una cittadina di 2.000/2.500 abitanti. Non considerando i rischi di incidente, i danni alla rete stradale e tanto altro ancora. Non si può, dunque, dubitare che la re-iniezione delle acque di strato sia la tecnica che presenta i maggiori vantaggi ambientali.

Cosa sente di dire sull’inchiesta potentina sul traffico illecito di rifiuti? Secondo l’accusa l’Eni ha risparmiato fino a 100 milioni sui costi di smaltimento, taroccando anche le emissioni in atmosfera.

Ripeto. Abbiamo speso miliardi per raggiungere e salvaguardare gli standard di sicurezza ambientale. La fermata di tre mesi ci è costata 250 milioni. Non si mette certo a repentaglio la reputazione della prima società in Italia, tra le prime al mondo, ricorrendo a queste scorciatoie. La procura mi sembra aperta, pronta ad ascoltare e analizzare. Poi i giudici decideranno. Se avremo sbagliato, pagheremo.

Ma chi avrebbe sbagliato in tal caso: i cinque indagati Eni?

Non lo so. Vedremo. Non posso parlare di errori. Al livello di processo, le attività erano pianificate al meglio. Al livello operativo, vedremo. C’è un auditing in corso.

Lei aveva detto che non chiudeva la raffineria di Taranto per senso di responsabilità. Quanto ha inciso sul sito jonico lo stop al centro Olio di Val d’Agri, da dove proviene l’olio raffinato a Taranto? E ora è soddisfatto?

Portare da fuori, via mare, l’olio greggio non solo è più costoso, ma crea maggiori problemi ambientali, tuttavia abbiamo deciso per senso di responsabilità di non chiudere. Siamo, quindi, doppiamente soddisfatti per la ripresa dell’attività in Val d’Agri in quanto ci consente di sventare ogni tipo di impatto occupazionale a Taranto.

A Taranto il progetto Tempa Rossa, teso a rendere possibile l’esportazione via mare del greggio proveniente dal centro Olio Total di Corleto Perticara attraverso l’oleodotto Eni Val d’Agri, non vi riguarda in presa diretta, ma ha sollevato nuove opposizioni. Anche da parte delle massime istituzioni regionali.

Gli interventi previsti non comportano un incremento della capacità di lavorazione della raffineria, ma solo la realizzazione di due nuovi serbatoi di capacità complessiva pari a 180mila mc oltre al prolungamento del pontile esistente di circa 500 metri. Il costo dell’investimento ammonta a 300 milioni di euro. A regime l’esercizio della nuova opera comporterà una crescita delle attività marittime commerciali del territorio. Della questione, ovviamente, se ne sta occupando Total. Rispunta, per rispondere alla sua domanda, il problema della comunicazione e del dialogo di cui si è detto in precedenza.

Non crede, come sostiene il Protocollo di Kyoto, che Stati e imprese debbano fare come gli antichi romani, che risarcivano direttamente le popolazioni danneggiate, nei loro averi, da un’opera impattante?

Il primo atto del risarcimento è quello del confronto, del colloquio. La Val d’Agri costituisce il primo esempio in Italia di grande accordo, nel ‘98, di compensazione ambientale. Ma sono pienamente d’accordo sul coinvolgimento delle comunità locali e sulla ricompensa a loro vantaggio. La principale ricompensa, in ogni caso, resta quella di creare lavoro nei territori dove si opera.

All’Eni conviene investire in Italia? La maggioranza dei suoi azionisti è straniera.

L’Italia è vista come un Paese sicuro, pieno di opportunità. I vantaggi superano gli svantaggi. L’Italia presenta un contesto industriale maturo, ha incredibili competenze professionali e tecnologiche. Anche il Sud presenta molte potenzialità. Gli svantaggi, non solo in Italia però, risiedono in un processo burocratico lento e logorante. Da noi un progetto richiede 26 firme. I controlli sono indispensabili, ma serve la certezza dei tempi. Altro punto debole: la difformità di vedute e procedure tra livello istituzionale nazionale e amministrazioni locali. Non è accettabile che un progetto possa restare in bilico per molti anni.

Il crollo del prezzo del petrolio ha inciso sui conti dell’Eni, che nel 2015 ha visto un rosso di 8,8 miliardi. Come sarà il 2016?

Il prezzo è ancora più basso. Noi abbiamo reagito bene, riducendo il debito nonostante il calo del prezzo

Lei ha detto: breakeven possibile anche a 27 dollari il barile.

Per la parte upstream sì. A livello societario il breakeven è confermato a 50 dollari, per la copertura degli investimenti in tutti gli altri settori, dalla chimica alla raffinazione. Quando il prezzo del pertrolio risalirà, riprenderanno i profitti.

Si dice da sempre che l’Eni faccia la politica estera dell’Italia. Quanto ha inciso sulla vostra attività l’incertezza politica nel Nord Africa?

L’Eni non fa la politica estera dell’Italia. Collabora coi governi perché se il Nord Africa è importante per l’Eni, altrettanto importante è per l’Italia. Sotto molti punti di vista.

I francesi hanno eliminato Gheddafi perché era un duro dittatore o per creare problemi all’Eni in Libia?

Non credo che si volesse fare del male all’Eni. C’era una situazione politica particolare, la primavera araba...

Ma la ripartizione tradizionale non era: il petrolio algerino alla Francia, quello libico all’Italia?

Non ho mai fatto accordi con nessuno. So che l’Eni è la prima compagnia in Egitto, in Libia e in Algeria.

L’Eni ha scoperto un importante giacimento in Egitto, contribuendo, come ha detto Lei, all’indipendenza energetica di quello Stato. Il che non ha provocato qualche gelosia di troppo?

Sicuramente qualche gelosia è sorta. Abbiamo realizzato importanti scoperte in Mozambico, in Congo, in Ghana, in Angola, in Indonesia... Di fronte ai successi, è naturale che sorga qualche gelosia. Ma mi auguro, e voglio crederlo, che tutto resti nell’ambito della gelosia.

L’Eni è lo Stato parallelo, come titola un libro uscito di recente?

L’Eni è una grande azienda. Non è uno Stato. Non siamo politici. Non abbiamo spirito di conquista. In Italia investiamo molto, ma il 95% delle nostre attività è al di fuori dell’Italia, non foss’altro per legittime ragioni di diversificazione. Forse quel libro si riferiva a quando l’Eni aveva una logica diversa, una missione diversa e interlocutori diversi. Il 70% degli azionisti, oggi, è composto da stranieri.

Il 30% in mano allo Stato italiano può essere assottigliato?

Non ho la disponibilità di queste decisioni. Sono domande da rivolgere ad altri.

Renzi un paio d’anni fa disse che l’Eni è un pezzo fondamentale della nostra politica di intelligence. L’affermazione non passò sotto silenzio, Che voleva dire il premier?

La preparazione e la cura degli investimenti è fondamentale per l’Eni. Il risk management è alla base delle nostre iniziative. Se qualcuno vuole chiamare intelligence le nostre due diligence faccia pure. Noi dobbiamo sapere dove mettere i piedi. Sarei un irresponsabile se mi disinteressassi delle aree su cui Eni realizza investimenti.

Franco Debenedetti ha scritto un libro sugli errori della politica industriale. L’Eni è stato un pilastro della politica industriale. Che pensa?

Sbaglia la politica e può sbagliare l’industria. Anche l’industria italiana ha sbagliato, talvolta. Sulle tecnologie, sulla ricerca scientifica, sulla dispersione dei talenti. Le colpe non sono univoche.

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