Mafia
Scacco a clan di Taranto 35 fermi della polizia
TARANTO - L’idea di assicurarsi un ruolo di prestigio nel clan mafioso aveva sedotto anche lei. Una delle donne dell’organizzazione si era rivolta al capoclan chiedendo di essere sottoposta al rito di affiliazione. «Poi - dice l'indagata - mi devi fare a me». «Non si può fare», risponde il boss Cosimo Di Pierro. Ma l’interlocutrice insiste: «Sì, alla femmina si può fare. A Bari si fa e a Taranto no? Perché a Taranto non si fa? Tu a me non mi conosci». Mentre i due parlano la microspia piazzata dalla polizia nell’appartamento Di Pierro documenta l’insistenza della donna di essere affiliata al clan mafioso. E’ questo è uno dei retroscena dell’inchiesta condotta dalla Squadra mobile di Taranto, con il coordinamento della Dda di Lecce, che ha portato oggi all’esecuzione di 35 fermi di polizia giudiziaria (su 37 firmati dai sostituti procuratori Alessio Coccioli e Lanfranco Marazia), quasi tutti per associazione mafiosa.
Il capoclan Cosimo Di Pierro, detto Mimmo, di 61 anni, un tempo «braccio armato» dell’organizzazione capeggiata dai fratelli Riccardo e Gianfranco Modeo, aveva infatti espresso l'intenzione - come accertato dalle intercettazioni - di sottrarsi alla detenzione domiciliare (che aveva ottenuto il 21 novembre 2014 dopo una lunga carcerazione) e di 'nascondersì in un appartamento che fosse conosciuto solo a pochissimi e fidati complici. Prima che il boss ottenesse i domiciliari, però gli uomini del questore Stanislao Schimera hanno piazzato nell’appartamento una serie di microspie che hanno consentito l'accesso a quello che viene definito dagli investigatori la 'sala operativà del clan. Di Pierro, infatti, aveva un ruolo di primo piano nella gerarchia mafiosa e aveva ottenuto la piena consacrazione del suo ruolo all’interno dell’associazione mafiosa ed era stato «battezzato» da Ignazio Taurino e Cosimo De Leonardo con la cosiddetta «santa», termine che sta a indicare un grado di assoluto rilievo nella consorteria criminale. Successivamente Di Pierro avrebbe ottenuto anche il grado di "vangelo».
Sono le intercettazioni telefoniche e ambientali la vera miniera dell’inchiesta, da cui è emersa la volontà di Di Pierro di «impossessarsi della città» fino a confessare che «la città è nostra». Il pregiudicato aveva ricostruito in breve tempo una organizzazione criminale in grado di contare su una continua disponibilità di armi ed esplosivi, che imponeva il pizzo ai commercianti e spacciava droga nei quartieri 'Borgò e 'Solitò. Il clan guidato da Di Pierro interagiva con altri due gruppi delinquenziali, ugualmente strutturati in maniera verticistica. Il primo, prevalentemente dedito al commercio di stupefacenti, è guidato da Gaetano Diodato e Angelo Di Pierro (figlio di Cosimo), con i quali i rapporti erano stati inizialmente conflittuali tanto da sfociare in attentati intimidatori e tentativi di omicidio; la seconda organizzazione faceva invece riferimento a Nicola Pascali, detto Nico, ed era più orientata verso le attività estorsive e l’acquisizione illecita di attività imprenditoriali. Per rafforzare il legame tra i sodali, come emerso dalle intercettazioni, erano previste anche cerimonie di iniziazione e di affiliazione, sulla falsariga dei rituali di matrice 'ndranghetista. Di Pierro si vantava con i sodali di controllare il carcere tramite suoi uomini di fiducia, primo fra tutti il temuto Francesco Mancino, soprannominato «il mostro», e istruiva luogotenenti e gregari: «La malavita così funziona ...ne devi colpire uno per far capire a tutti ...non dobbiamo fallire...con una mossa vinciamo tutte cose».