viticoltura
I vini di Puglia tra storia e gusto
Nell’«Atlante dei vitigni di territorio» un viaggio alla scoperta delle varietà autoctone
È sufficiente pensare all’alberello – «pugliese», appunto – per considerare quanto sia antico e solido il legame tra la Puglia e la viticoltura: riscopriamo Andrea Bacci ed il suo «De naturali vinorum historia de vinis Italiæ et de conuiuijs antiquorum libri septem» stampato a Roma a fine Cinquecento? Nossignore: restiamo all’attualità di una ricerca con l’«Atlante dei vitigni e vini di territorio», curato da Alberto Palliotti, Oriana Silvestroni e Stefano Poni e pubblicato da Edagricole di Milano qualche mese fa. In esso si propongono in materia sistematica, e secondo un criterio geografico regionale, i «genotipi italiani autoctoni poco noti e diffusi».
«A testimonianza del rinnovato interesse verso i vitigni di territorio – scrivono i curatori –, è stato di recente codificato il termine “autoctono”» e, citando la legge, spiegano che le espressioni «vitigno autoctono italiano» o «vitigno italico» altro non stiano a significare se non «il vitigno appartenente alla specie “Vitis vinifera”, di cui è dimostrata l’origine esclusiva in Italia e la sua presenza – lo dice la legge – è rilevata in aree geografiche delimitate del territorio nazionale». Se poi si pensa che dal 2010 ad oggi, sono stati iscritti nel «Registro nazionale delle Varietà di Vite da vino» «ben 169 vitigni, dei quali 112 autoctoni (43% a bacca bianca e 57% a bacca nera), 19 sono vitigni da incrocio di varietà “Vitis vinifera”, 3 stranieri e 35 varietà ibride interspecifiche resistenti a peronospora e oidio», il quadro è ben delineato ed hanno ben donde i curatori a sottolineare «l’importanza che i vitigni autoctoni stanno rivestendo nel panorama viticolo italiano, da un lato, e il recepimento della necessità di valorizzare meglio il legame “vitigno autoctono – paesaggio”, dall’altra». In sostanza, nell’«Atlante» si descrivono 126 vitigni, «originari di specifici territori di tutte le regioni italiane e a diffusione limitata, ovvero non superiore a 200 ettari di superficie coltivata».
Puntando ora lo sguardo sulla Puglia, che vanta 87mila ettari di superficie coltivata a vite, gli studiosi coinvolti nella redazione dell’«Atlante» (Pierfederico Lanotte, Pasquale Venerito, Giovanna Bottalico, Costantino Silvio Pirolo e Vito Nicola Savino) hanno prima evidenziato i tre bacini viticoli omogenei fra Capitanata, Murgia centrale e Salento–arco jonico, quindi hanno posto in risalto come la produzione di vini Dop si attesti sul 4,9% del totale ed i vini Igp sul 22%. Accanto ai già noti bianchi «Verdeca/Pampanuto», «Bianco di Alessano» e «Bombino Bianco» ed ai vitigni a bacca rossa «Primitivo», «Negro Amaro», «Malvasia nera di Brindisi/Lecce ed altri vitigni in via di diffusione come il Susumaniello nell’area Salento–Arco Jonico», «Nero di Troia e Bombino Nero nell’aerea Murgia Centrale e Capitanata», gli studiosi considerano «altri vitigni minori a rischio di erosione genetica», ricordano l’alberello pugliese e non dimenticano che, soprattutto pensando ai Monti Dauni, dall’antico «Arbustum» deriva il tendone.
E quindi ecco «Cigliola Bianca», «Maresco», «Minutolo», «Moscatello Selvatico», vitigni a bacca bianca; nonché «Notardomenico», «Ottavianello» e «Somarello Rosso», vitigni a bacca nera: sette in tutto, e ben descritti dagli studiosi. Non c’è alcuno dei tre bacini a non essere coinvolto in queste tipicità studiate. Perché se i vitigni di «Cigliola Bianca» con i loro acini dalla polpa carnosa e capaci di conservare «a maturità un sapore gradevole e leggermente aromatico» sono nella provincia di Lecce ed in Valle d’Itria, «dove è conosciuto con il sinonimo di “Uva Attina”», quelli di «Maresco», invece, sono propri della Valle d’Itria con quegli acini «dal caratteristici colore giallo intenso e polpa succosa e acida». La Cigliola, però, è attestata in Terra d’Otranto già nella seconda metà dell’Ottocento, mentre il «Maresco», «pur non citato nei lavori di ampelografia pugliese – si legge –, è presente nella zona da epoca remota».
Anche con i vitigni di «Minutolo» restiamo in Valle d’Itria e se le parole hanno un senso preciso, di questo vitigno – la cui «polpa, succosa e fortemente aromatica, rappresenta la caratteristica distintiva fondamentale» – va detto che «identifica le produzioni pugliesi della Valle d’Itria..., anche se l’interesse per la varietà è allargata ai produttori di tutta la Regione». E poi: «in passato, e ancora oggi fra i vecchi viticoltori – si legge –, il Minutolo era conosciuto come Fiano...». Pure il «Moscatello Selvatico» con «polpa debole e molle tenera», ha la sua bella storia. «Identifica fortemente le produzioni pugliesi... del Moscato di Trani, nel circondario di Barletta», annotano gli studiosi e proprio sul versante della storia ricordano come «la produzione di vini a base di Moscato, a cui indubbiamente concorreva anche il Moscatello Selvatico, era tradizione in Puglia già nel XVII secolo».
Le province di Brindisi e Bari attestano poi la presenza del vitigno «Notardomenico», i cui acini di colore rosso scuro–violetto hanno «buccia fortemente pruinosa». Citato da autori di fine ‘800 «è stato generalmente coltivato e vinificato in uvaggio con l’Ottavianello, altro vitigno autoctono del Brindisino col quale entra per la produzione del vino Doc Ostuni». E ricordando che «lo stesso vitigno è presente con altre denominazioni in differenti aree vitivinicole della regione Puglia», volgiamo appunto l’attenzione sull’«Ottavianello» vitigno diffuso in provincia di Brindisi e in Valle d’Itria, i cui acini presentano «polpa succosa e consistente». Anche qui una storia da raccontare circa la sua importazione da altri luoghi d’Italia, la sua qualità di essere «resistente alle malattie crittogamiche ed al favonio, vento caldo e secco proveniente da Ovest, nocivo per l’agricoltura della Regione». Chiude la rassegna di questo «Atlante» il «Somarello Rosso» registrato in provincia di Foggia, Bat e Bari. «Polpa carnosa e succosa, leggermente aromatica e zuccherina», si legge del grappolo del Somarello «che ha una storia antica e popolare» e così, mentre il Somarello Nero «è praticamente scomparso dalla coltivazione (restano alcuni esemplari nei campi collezione)», l’altro «è coltivato seppur su superfici modeste o addirittura piccoli pergolati e in alcuni comuni del Foggiano». Una pagina di storia regionale, quella descritta nell’«Atlante»: una pagina da leggere tra i pampini e all’odore della terra coltivata.