L'intervista
«L'europeismo è l'eredità del Pci»
Vacca: la svolta della Bolognina è un atto necessario, ma solo in parte adeguato
Professor Giuseppe Vacca, storico e filosofo, deputato del Pci per due legislature (1983-1992) e già presidente della Fondazione istituto Gramsci, da dove iniziamo per raccontare i 100 anni del Partito comunista italiano?
Dalla constatazione che si tratta di una ricorrenza singolare. Personalmente non credo ai 100 anni del Pci, non c’è una continuità che copra un intero secolo. Quella del partito è una storia che finisce nel 1991 per volontà del suo gruppo dirigente, me compreso. Certo, sono 100 anni dalla nascita, ma sono trenta da quando decise di sciogliersi. È questo a rendere la ricorrenza singolare.
Va operata quindi una distinzione? Storia del Partito comunista e storia del comunismo italiano?
Direi di sì, non è una storia che si possa leggere solo attraverso il filo cronologico del Pci, che fu veicolo di quella esperienza, anche perché è tutt’altro che un filo unitario. Il Pci di Bordiga non è quello di Gramsci che, a sua volta, non è quello di Togliatti né di Berlinguer e via dicendo. Quella del comunismo italiano è una esperienza nazionale ed internazionale ed è quella di un secolo, non breve, che coincide con la parabola dello sviluppo della società industriale moderna. Questo è bene precisarlo perché nel Novecento, per la prima volta, la storia diventa mondiale e il comunismo, in particolare, fu il primo network politico globale. Ciò non esclude che, per comprenderla, si possa ritagliare spazio perle storie nazionali e ragionali ma è rilevante rintracciarne i nessi con la storia internazionale e mondiale.
Qui il nesso qual è?
Quello italiano si può considerare il più longevo e vitale comunismo riformatore, almeno a partire dal 1944 quando è elaborato, in maniera originale da parte di Togliatti, il rapporto fra storia italiana e storia mondiale. E la cultura politica del partito nuovo diviene parte integrante della vicenda culturale e politica del nostro Paese ma non solo.
Oggi si considera naturale la diffusione degli scritti e del pensiero di Antonio Gramsci. Ma è sempre stato così?
La verità è che Gramsci è una «invenzione» di Togliatti. Quando quest’ultimo torna in Italia, Gramsci, già era scomparso nel 1937 ed era uno sconosciuto. Parte da lì un recupero e un’opera di riscoperta i cui effetti sono oggi insospettabili per molti. Negli Stati Uniti, fra i ministri della nuova presidenza Biden, c’è Pete Buttigieg, figlio di quel Joe, scomparso due anni fa, che è l’apripista delle edizione dei Quaderni del Carcere in corso di pubblicazione per la Columbia University press. Ma figura anche John Kerry lettore attento e molto influenzato da Gramsci che avrebbe dovuto partecipare a una tavola rotonda organizzata dalla Fondazione Gramsci nel 1997 a conclusione del convegno internazionale su Gramsci e il Novecento.
Torniamo al centenario: spesso si è tentato di spiegare la storia del Novecento attraverso la storia del comunismo. Un’operazione discutibile.
Lo hanno fatto sia oppositori accaniti che apologeti ma è un approccio sbagliato. Non è il comunismo a spiegare in Novecento ma il Novecento a spiegare la storia del comunismo. Quest’ultimo nasce perché c’è il primo conflitto mondiale e finisce perché finisce l’Urss, nonché per l’esaurimento endogeno delle proprie risorse culturali. E questo senza nulla togliere allo straordinario tentativo riformatore di Gorbaciov che, promuovendo l’unificazione tedesca, ha impresso un nuovo corso all'integrazione europea.
Impossibile ripercorrere pedissequamente quella storia, sia essa italiana o internazionale. Fra ombre, luci, terrori, evoluzioni virtuose, sbagli, riforme, si può individuare un momento particolare di svolta, fra le tante, nell’epopea del Pci?
L'ultima fu l'eurocomunismo di Berlinguer grazie a cui il Pci ottenne la massima visibilità e fortuna internazionale, perfezionando il proprio europeismo e diventandone una delle forze vitali. In realtà già dopo il 1968 e dopo la repressione della primavera di Praga il movimento comunista mondiale non esisteva più. Dopo la rottura con Mosca, il Pci proseguirà la sua storia in Italia dovendo fare i conti, negli anni ’70 e ’80, con una feroce offensiva neoconservatrice, tendente a far passare perfino l'egemonia gramsciana come travestimento della dittatura del proletariato di Lenin.
È in questa temperie, larga anche come periodizzazione, che si inserisce l’esperienza dell’Ecole Barisienne?
Si trattò di una piccola rete di intellettuali, poi chiamata Scuola di Bari, che fu il principale tramite fra il Pci barese, a cui io mi ero iscritto dal 1961, e significativi pezzi di intellettualità di sinistra. Nel gruppo figuravano fra gli altri Franco De Felice, Biagio De Giovanni, Mario Santostasi, Vito Amoruso, Arcangelo Leone De Castris e poi via via Franco Cassano, Pino Cotturri e Pietro Barcellona. Ma decisivo era stato il ruolo di Alfredo Reichlin, segretario regionale del Pci dal 1962 al 1968. Naturalmente quella esperienza si allargò assumendo presto una dimensione meridionale.
Qual era il punto?
Per noi la storia del Pci era talmente originale che, dopo il ’68, Immaginavamo una forma di socialismo realizzabile in Italia come modello diverso e alternativo a quelli vigenti nei Paesi socialisti. Era la nostra «utopia». L’idea ricalcava la formula berlingueriana della democrazia come mezzo e come fine? Sì e no, ma al di là del formulario la risposta alla domanda sul modello di società auspicato era una: la Costituzione repubblicana. Dunque, un modello di socialismo non fondato sulla rottura paradigmatica fra socialdemocrazia e comunismo né fra comunismo riformatore e cattolicesimo democratico.
Ogni storia ha una fine. In questo caso la svolta della Bolognina nel novembre del 1989 da cui lo scioglimento del Pci nel 1991. Un tradimento o un atto necessario?
Fu un atto necessario, salutare tardivo e solo in parte adeguato. Due gli elementi importanti: con Gorbaciov era già in atto da tempo la liquidazione del socialismo reale nell’Europa orientale e in Italia il Pci era in una situazione di isolamento e declino elettorale. La strategia di Bettino Craxi, egemonica sulla sinistra, funzionava. D’altra parte la formula del pentapartito, poi quadripartito, definiva il perimetro del governo e dell’opposizione eliminando dall'agenda politica il tema dell’alternanza. Era necessario far implodere la degenerazione della democrazia dei partiti ormai del tutto inadeguata alla situazione italiana e internazionale.
Lei lo definisce un atto «solo in parte adeguato». Cosa non andò in quella svolta?
I materiali culturali con cui la svolta venne effettuata e condotta nei primi anni producevano più destabilizzazione che stabilizzazione e non erano adeguati a definire il partito che nasceva.
Oggi, nell’opinione pubblica, è radicata l’idea che la sinistra post-comunista abbia dissipato quell’eredità di cui non resterebbe più nulla a cominciare dal respiro culturale. È finito tutto, ingloriosamente, nella mediocrità dei tempi contemporanei?
In realtà quella storia continua a riverberarsi sull’oggi. Non a caso il Partito democratico, nato nel 2007 dalla convergenza tra gli eredi della tradizione cattolico-democratica e gli eredi della tradizione centrista del Pci, si è trovato a sorgere sul terreno di una nuova grande discriminante: il processo di implementazione comunitaria dopo Maastricht. Anche negli ultimi e convulsi mesi il Pd è stato il partito garante dell’asse europeo negli equilibri italiani. Quando, per capirci, è imploso il governo gialloverde è stato giusto sperimentare una nuova compagine favorendo il processo di europeizzazione del Movimento 5 Stelle».
Quindi, professore, alla fine della giostra, è l’europeismo l’eredità del comunismo italiano?
È sicuramente l'europeismo, compreso quello del Pci, frutto della progressiva maturazione della sua responsabilità nazionale. Il Pci ha avuto unatendenza e una vocazione, non sempre maggioritaria, da partito della nazione che oggi si declina e articola lungo l’asse Italia-Europa.