Gabriele Gravina a tutto campo. Il numero uno del calcio italiano, sul ponte di comando dal 22 ottobre del 2018, fa il punto della situazione a poco più di un mese dall’appuntamento elettorale più importante per quanto riguarda il pianeta calcistico. Il 22 febbraio il pallone italiano sarà chiamato a eleggere il nuovo presidente. E sul ring saliranno il dirigente pugliese e Cosimo Sibilia, numero uno dei Dilettanti.
Si approssimano le elezioni federali: quali sono a suo avviso le principali esigenze del calcio italiano?
«Le ho elencate in maniera dettagliata nel mio programma. Dopo aver rivitalizzato il calcio italiano da un periodo buio, dopo averlo sostenuto con responsabilità e determinazione durante la pandemia, è giunto il tempo di riformarlo radicalmente lavorando sulla sostenibilità economica del sistema, sulla valorizzazione dei vivai e sulla riforma delle competizioni».
Il suo "avversario" sarà Cosimo Sibilia con il quale ha in comune l'esperienza al vertice di campionati ora in grave difficoltà: che cosa può nascere dal vostro confronto?
«Il frutto del confronto con tutto il calcio italiano è pubblicato nel mio documento programmatico. L’accreditamento, praticamente unanime, di cinque componenti su sei (Lega A, Lega B, Lega Pro, calciatori e allenatori) è un fatto storico ed è motivato dalla condivisione di un progetto ambizioso, ma molto concreto, come dimostrano i risultati ottenuti negli ultimi due anni. Stupisce piuttosto che non abbia voluto raccogliere l’invito all’unità lanciato dal calcio italiano, in maniera così trasversale».
La riforma e lo snellimento dei campionati resta un caposaldo di qualsiasi programma: da dove partire ed in quale modo?
«Sono convinto che ragionando per numeri non si trovi la formula corretta. L’unica via, ed è quella che voglio percorrere, è partire dalle fondamenta: cioè dal rapporto tra le componenti e dal ruolo che ogni Lega deve esercitare nel sistema, creando le condizioni per una riforma radicale delle competizioni. Una nuova idea di professionismo e una nuova idea di dilettantismo non sono più rinviabili».
C'è chi chiede la serie A con meno squadre, eppure il format a 20 è adottato anche da grandi leghe europee e rappresenta la speranza di disputare la massima serie anche per tante realtà di provincia: davvero sarebbe il caso di discuterlo?
«Non è una priorità, infatti, l’importante è proseguire nel processo di valorizzazione del brand e dello spettacolo Serie A. Attrarre nuovi investitori, rendere il campionato sempre più affascinante per poterlo collocare meglio sul mercato, questo deve fare la Lega e questo sta facendo Dal Pino. Perché così ne beneficia tutto il calcio italiano».
Come potrà il calcio italiano reagire alla pandemia? Riaprire gli stadi sarà possibile in sicurezza e già nel corso dell'attuale stagione?
«Il calcio italiano ha già dimostrato di saper reagire alla pandemia, disputando le competizioni in tutta sicurezza e impiegando uno enorme sforzo finanziario. Stiamo lavorando a come possa superare la crisi tremenda che si è abbattuta su tutto il Paese. In questa operazione il Governo deve aiutarci perché il calcio è un settore produttivo tra i più importanti in Italia per impatto sociale oltre che economico. La riapertura degli stadi al pubblico dipende dalla diffusione del virus, non appena possibile sarebbe bello poterli aprire ai vaccinati».
Sono i giorni in cui si approntano i bandi per i diritti televisivi relativi al prossimo triennio: pensa che il prodotto calcio italiano otterrà le risorse auspicate?
«Me lo auguro anche se è difficile per l’andamento del mercato. In Lega di A sono comunque determinati ad arrivare a quell’obiettivo, stanno tracciando un progetto che va oltre questo singolo bando».
La stagione sportiva dovrebbe culminare con il grande evento degli Europei: ritiene che la manifestazione possa essere a rischio? Pensa che gli Europei si potranno disputare con la presenza del pubblico?
«La Uefa sta lavorando con impegno e responsabilità per garantire il rispetto del format innovativo e il grande appeal di questa competizione. Ci sono diverse opzioni sul tavolo, la priorità è quella di disputare gli Europei con il pubblico negli stadi, sarebbe una festa dello sport e la certificazione di essere venuti fuori da questo incubo».
Roma è tra le sedi designate dell'edizione itinerante: pensa che ci sia il rischio di perdere una vetrina così prestigiosa se si optasse per una sede unica?
«È prematuro parlarne, il mio auspicio è che ci siano le condizioni per farlo così come lo si era immaginato. Roma e l’Italia stanno lavorando per garantire alla Uefa le migliori condizioni, come del resto stanno facendo tutte le altre grandi capitali europee».
Come vede le prospettive della nazionale azzurra?
«Il futuro del calcio italiano è azzurro intenso. Oltre all’Europeo, dove l’Italia parte tra le favorite in virtù dei risultati ottenuti negli ultimi due anni, tutto il movimento sta beneficiando del messaggio di armonia, coraggio e qualità tecnica di questa Nazionale».
L'altro tormentone riguarda il contratto del ct Roberto Mancini: è possibile immaginarlo ancora a lungo come guida degli azzurri e farlo diventare un riferimento duraturo come è accaduto in altre nazioni?
«Non lo definirei tormentone, visto che mancano ancora due anni alla scadenza del suo attuale contratto. Ma il fatto che si parli spesso di prolungare il suo rapporto lo considero un risultato straordinario, perché negli italiani è esploso nuovamente l’entusiasmo per la Nazionale. Con Mancini stiamo lavorando sul campo ad un progetto di lunga scadenza, quando il tempo sarà maturo parleremo anche di metterlo nero su bianco».
Tra difficoltà a costruire nuovi stadi o ad ammodernare quelli esistenti, quando l'Italia sarà pronta ad ospitare un grande torneo, escludendo la parentesi delle prossime finali di Nations League?
«Gli stadi rappresentano una condizione essenziale per dare sostanza al concetto, troppo abusato in passato, di sostenibilità. Senza stadi e senza vivai non si esce dalla crisi, ma non dobbiamo fare l’errore di pensare di realizzare nuovi impianti solo candidandoci a grandi eventi».
Venendo alle nostre latitudini, come si può sostenere e ripensare il calcio dalla B in giù?
«È necessaria una chiara indicazione della mission di ogni Lega, in funzione della filiera del calcio italiano, adottando provvedimenti conseguenti. L’introduzione dell’apprendistato nelle società di calcio aiuterà proprio i club di B e di C, anche se non è sufficiente. Continueremo a batterci per il semiprofessionismo e per una nuova forma di gestione dei club che non mortifichi la propensione agli investimenti, ma tenga comunque presente il principio dell’equilibrio competitivo».
La Puglia attualmente non è presente in A: vede i presupposti per un pronto ritorno ai massimi livelli?
«La Puglia è la mia regione e mi auguro che possa essere rappresentata nel massimo campionato. Non passerà molto tempo…».
Da presidente della Lega pro giustamente non vide i presupposti per un ripescaggio del neonato Bari di De Laurentiis nel 2018: a distanza di due anni come valuta il progetto biancorosso?
«Sono convinto che il Bari possa regalare diverse gioie ai suoi tifosi, la società è solida e le ambizioni non mancano. L’intervento fatto per impedire che Bari sparisse completamente dalla geografia calcistica italiana è stato importante, adesso è fondamentale stabilizzare i programmi».
La multiproprietà sarà un tema in evoluzione o per il Bari (ed altre realtà) resterà un ostacolo insormontabile per arrivare in A?
«Le norme sono chiare: non è consentito esercitare il controllo di due club professionistici, a meno che non si parta dai Dilettanti come avvenuto al Bari e comunque non nella stessa categoria».
(foto Ansa)