Ostaggi Selvaggi

La quarantena di Vendola: «Io che ho pianto morti senza funerali»

Alberto Selvaggi

Parla Nichi Vendola: ho perso due cugini e fratelli di lotte. Io, Ed e il bimbo rifugiati in campagna

BARI -   La prima parola che viene in mente sotto pandemia è pathos. Una condizione che spinge la sostanza pensante a una mutazione vitale.

«Abbiamo vissuto un’esperienza estrema, dolorosa, impensabile. Il virus ci ha isolati nei desolati metri del distanziamento sociale. Ci ha separati con la malignità di un diavolo. Tutti esiliati in un altrove senza abbraccio. Ecco, penso che ciascuno abbia provato a crescere, a imparare: a non vivere quella strana mutazione del nostro tempo e del nostro spazio solo come una perdita, ma anche come un’occasione per ripensare la gerarchie delle cose davvero urgenti, di quelle necessarie, di quelle superflue, per rimettere al centro della vita tutto il vivente e il suo bisogno di protezione. Io la vivo così, come un durissimo avvertimento: senza un cambiamento radicale dello stile dello sviluppo l’intero eco-sistema terrestre rischia l’infarto».

La seconda parola è paura, altro istinto deputato alla sopravvivenza. Nichi Vendola come l’ha affrontata? 

«Ho avuto tante volte paura, nel corso della mia vita. Mi è capitato più volte di trovarmi in situazioni di pericolo. A Sarajevo durante la guerra balcanica, nella giungla in Colombia, tra le comunità in rivolta del Chiapas messicano. Ma anche nella lotta contro le organizzazioni mafiose. La paura oggi è molteplice: paura di una cattiva morte, nella solitudine di una terapia intensiva, paura che il virus ci tenga prigionieri ancora a lungo, espropriati della socialità e della fisicità dei suoi riti».

I genitori, soprattutto nella fase nera, erano più preoccupati per i figli che per loro stessi, pur essendo i giovanissimi quasi esenti da rischi. Essendo genitore lei, genitore Ed, come vi siete organizzati per la tutela del vostro piccolo Tobia?

«Beh, vede, proprio l’idea di una minaccia invisibile che può insidiare la salute di tuo figlio ci ha spinto a fuggire da Roma e a rifugiarci nella campagna del padre di Ed, una campagna isolata e circondata dai boschi nel basso Lazio. Qui ci siamo sentiti al sicuro per noi e soprattutto per il bambino».

Alcuni fra gli intervistati della rubrica hanno perduto affetti a causa del coronavirus. Mi domando se lei è fra questi.

«Nella quarantena ho perso, colpiti da tumori assassini, una giovane splendida cugina, un adorato cugino italo-americano, alcuni tra i compagni più importanti della mia vita politica. Lutti senza funerale, morti senza un congedo di famiglia, spariti. Un’esperienza terribile: insieme la morte e la perdita collettiva dei riti del compianto».

Come avete organizzato la quotidianità in famiglia?

«Non abbiamo aiuti, io e Ed ci occupiamo di tutto da soli. I lavori domestici sono equamente divisi, cuciniamo, bene, entrambi, ci dedichiamo molto a nostro figlio che è una locomotiva sempre in movimento. La giornata conosce poche pause, sembra strano ma in questo riposo forzato io sono sempre stanco».

La immagino sul divano, invece, intento a leggere libri in versi e ad ascoltare cori sacri.

«La musica è la mia più tenace compagna nei giorni e nelle notti della pandemia. A me piace un po’ di tutto. Amo Franco Battiato e sono un fan di Mahmood. Mi emoziona molto il melodramma, mi appassiona la musica barocca e in genere la musica sacra. Forse la musica è l’arte che più ci mette in relazione con Dio e con l’alterità».

Non mi dica che, oltre ad ascoltare e a leggere, sta buttando giù un nuovo libro.

«Scrivo quando posso, o meglio quando non ne posso fare a meno. La scrittura poetica è quella a me più congeniale. E un libro, certamente, sta nascendo».

Un grave problema che ha subito l’umanità a causa del virus credo sia questo: sentire passare il tempo troppo intensamente.

«Troppo intensamente, o troppo lentamente: insomma il tempo si è deformato, dilatato, miniaturizzato, sventrato, immobilizzato. Il mondo si è fermato e il tempo si è spezzato».

D’improvviso ci si è presentato il senso di morte in tutta la sua onnipotenza. In questi mesi ha scambiato due chiacchiere con la Signora che ha la falce ma di rado il martello?

«Come tutti mi confronto con l’immagine della mia finitezza. E penso all’immortalità laica di cui gode chi ha molto seminato e amato. “Sol chi non lascia eredità d’affetti/ poca gioia ha dell’urna”, come recitano i versi di Foscolo».

Non aver paura di avere un cuore, diceva il corsaro Pasolini. Il problema è che molti si sono resi conto di averlo soltanto adesso. Superata l’emergenza tutto tornerà nel tornaconto di prima?

«Io credo che dopo il coronavirus ci sarà una grande lotta nel pianeta tra quelli che chiederanno il conto di un mondo sregolato e selvaggio e quelli che lo vorranno ancora più sregolato e selvaggio».

Le sono sempre piaciuti i profeti. Che nome le balza in mente adesso, di apocalittici e integrati?

«I profeti che conosco non sono stati né degli integrati né degli apocalittici, sono stati annunciatori di speranza, operatori di pace, costruttori di giustizia: don Lorenzo Milani, don Tonino Bello. E nella dimensione laica penso ad Aldo Moro, Enrico Berlinguer, Alex Langer. La profezia di chi proclama l’intangibilità della vita umana e canta la bellezza di tutto il vivente».

È soddisfatto dalla sanità che ha lasciato? Per settimane infermieri e medici hanno gridato: dateci almeno le mascherine.

«Il sistema sanitario italiano, sottoposto per anni a tagli indiscriminati, impoverito a vantaggio della sanità privata, ha dovuto reggere una prova drammatica. Credo che, al netto di errori iniziali, la sanità pugliese abbia dato buona prova. Certo non sarebbe male studiare analiticamente tutto ciò che è andato storto, ad ogni livello del sistema, in centro come in periferia, per correggere ogni criticità. La sanità negli anni miei? Uno sforzo ciclopico per spostare risorse dalla sanità ospedaliera alla sanità territoriale: e credo che lo schianto del modello Lombardia dinanzi alla pandemia forse dimostra che quella era ed è la via maestra».

Quindi promuoviamo pure Michele Emiliano.

«Emiliano ha fatto quel che poteva, scegliendo giustamente di mettersi in relazione con le più significative autorità scientifiche. La sanità pugliese, non lo si dimentichi, patisce uno storico sotto-dimensionamento del personale sanitario, esce dalla stagione durissima dei piani di rientro, usa denaro europeo per fare ciò che dovrebbe fare lo Stato: costruire ospedali moderni e reti territoriali di servizi socio-assistenziali».

Onorevole, so che non c’entra niente, ma deve seguirmi in questo finale: l’ho vista alla cloche di un aereo spaziale sulla sua foto profilo WhatsApp.

«La verità temo sia meno ardimentosa. Come sa ho avuto il pallino dell’industria dell’aero-spazio come uno dei possibili talenti della Puglia che sognavo, e pensavo agli investimenti su Grottaglie e ad una interconnessione con il porto di Taranto e con gli snodi logistici di questa area. Era l’idea di combattere il degrado e la povertà puntando sulla qualità e sulla innovazione. Quello che lei vede nella mia foto WhatsApp sono io, certo, ma non mi trovo su un aereo. Soprattutto non lo guido, dato che non ho neppure la patente auto. Sono su un simulatore di volo. Certo, mi piacerebbe saper guidare un oggetto volante. Proverò con un drone magari. In fondo è proprio il volo, il sogno del volo, ciò che deve guidare la passione politica: inventare anche l’inaudito per rendere migliore la vita per tutte e per tutti».

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