il post sentenza
Le imprese criminali del Lupin di Foggia: così la banda Bonalumi portò via 15 milioni dal Banco di Napoli
Con stratagemmi da film furono oscurate anche tutte le telecamere di videosorveglianza interne ed esterne
Il colmo per un caveau svaligiato? Che il foro nel muro per accedere alla camera blindata ormai ripulita lo dovettero fare i tecnici chiamati dai poliziotti… Già, perché i ladri vi erano entrati senza colpo ferire, senza alcun segno di scasso. All’indomani della sentenza d’appello del processo Goldfinger - 9 condanne a 55 anni e 6 mesi, di cui 4 per il furto da 15 milioni del marzo 2012 all’allora Banco di Napoli di piazza Puglia; confermati i 13 anni a Olinto Bonalumi, l’Arsenio Lupin foggiano mente del colpo - alla genialità di chi svaligiò 165 cassette di sicurezza senza un solo segno di scasso e senza far ritrovare mai una spilla della refurtiva, fa da contraltare l’abilità investigativa della sezione antirapina della squadra mobile che partendo da un’intuizione sul possibile ideatore e da sospetti sul possibile coinvolgimento di due guardie giurate, risalì alla banda di foggiani e romani che progettava di bissare il colpo nel caveau delle gioiellerie Sarni al centro commerciale Mongolfiera, mandando a monte il nuovo furto.
Soltanto la sera dell’12 marzo 2012, quando gli uomini d’oro avevano ormai lasciato da 24 ore la banca dopo averci lavorato per 3 giorni e 2 notti, dall’istituto di credito scattò l’allarme al sensore time lock del caveau situato nel piano interrato. La porta era rimasta bloccata; l’unico modo per accedere nella stanza blindata fu forare il muro perimetrale. Una volta dentro poliziotti e bancari constatarono che delle 500 cassette di sicurezza, 165 erano state svuotate e altre 150 manomesse ma non aperte.
Con l’aiuto di 2 ingegneri e un esperto d’allarme, la squadra mobile ricostruì come avessero fatto i ladri a svaligiare la banca. Entrarono in azione alle 19.01 di venerdì 9 marzo; andarono via ricchi di soldi, oro e preziosi alle 23.25 di domenica 11 marzo. La serratura del caveau aveva un temporizzatore, il time lock, che alla chiusura della banca consentiva di programmare un timer per chiudere la porta d’accesso al locale senza possibilità di aprirla sino alla scadenza dell’orario programmato. Il venerdì 9 marzo fu regolarmente attivato alle 18 da un impiegato (estraneo alla vicenda) che aveva aperto alle precedenti 15.35, e per l’ultima volta prima del furto, la porta corazzata del caveau per consentire l’accesso di un cliente (estraneo al processo) che vi rimase 15 minuti. Dai rilievi della “scientifica” emerse che il pannello interno della cassaforte era stato tolto; e che erano stati manomessi sia il meccanismo del time lock sia quello di apertura fisica della porta. La conclusione degli investigatori? Qualcuno nei 15 minuti dell’ultima presenza del cliente, era sceso nei locali sotterranei per nascondersi e farsi chiudere all’interno del caveau. “unico luogo dal quale sarebbe stato possibile manomettere il pannello e poter quindi aprire la porta prima dell’orario programmato” si legge negli atti processuali.
La banca aveva un sistema di videosorveglianza con telecamere nell’area caveau e anticaveau, all’ingresso e alle casse, collegato a un hard disk all’interno di un armadio in metallo situato nel locale anticaveau. I ladri lo sapevano. E lo neutralizzarono; armadio forzato e hard-disk col video del furto rubato (ah, recuperarlo, vederlo…); biettivi delle telecamere puntate su porta e interno del caveau oscurati con vernice nera.
L’agenzia del Banco di Napoli di piazza Puglia era su 2 livelli: pianoterra con casse e uffici, interrato con caveau, archivio, locale termico. Due gli accessi: porta principale al piano terra; porta d’emergenza e tagliafuoco con maniglione antipanico nel piano interrato nel locale termico. Da questo ingresso si accedeva al garage comune allo stabile.
La porta d’emergenza “era monitorata da un rudimentale sistema d’allarme con due magneti sovrapposti facilmente eludibile”. I poliziotti verificarono che i sensori d’allarme alla porta tagliafuoco al locale caveau “pur essendo all’apparenza funzionanti, in realtà non rilevavano la presenza di alcuna persona”. Come mai? Perché nei controsoffitti la banda inserì circuiti elettronici artigianali collegati ai cavi del sensore, in grado quindi di bloccare la trasmissione delle segnalazioni di allarme alla centrale di comando. Sette i sensori manomessi collocati lungo il percorso che dalla sala termica conduceva alla porta del caveau. “Fu anche riscontrata la presenza di 2 by-pass all’interno del muro sovrapposto alla porta dell’anticaveau; per inserirli furono necessari verosimilmente lavori in muratura che richiesero più giorni di lavoro”.
Ovvia quindi la programmazione del colpo durata mesi. Confermata dal fatto che dal 13 dicembre 2011 sino ai giorni precedenti il furto “vi era stato uno sciame di allarmi, ben 341. La centralina” si legge negli atti processuali “registrava in memoria tutti gli eventi di allarme anche quando non era collegata al sistema centralizzato per sbalzi di tensione o distacco del cavo. Tra gennaio e febbraio 2012 vi erano state frequenti interruzioni della linea, durante le quali la centralina non aveva segnalato alcun evento di allarme. Nel periodo in cui furono registrati gli sciami, nei turni dalle ore 22 alle 6 del mattino dopo, addetto quasi esclusivamente al controllo era stato il vigilante Domenico Di Sapio che effettuò vari controlli, tutti terminati con esito regolare; mentre generalmente il turno diurno nei festivi e prefestivi era svolto dal collega Gennaro Rendine. Tra le 14.04 e 14.14 di domenica 11 marzo 2012, ossia durante il servizio di ronda effettuato da Rendine che non riscontrò alcuna anomalia, il furto era ancora in atto”.