Il caso
Lavit, respinto il ricorso della Dda per l'interdittiva. La Corte d'appello: «I D'Alba non sono contigui alla mafia»
La società che gestisce il «lavanolo» degli ospedali pugliesi. I giudici: «Non c'è un rapporto stabile con i clan»
È «escluso» che la Lavit possa essere considerata «un’impresa intrinsecamente mafiosa» per il solo fatto che una piccola quota del capitale appartiene alla nipote del pregiudicato Vito Lanza, non essendo emerso «che la cosca mafiosa denominata “Società foggiana” esercitasse in qualche modo un controllo sulla vita della società». Per questo ieri la Corte d’appello di Bari ha rigettato il ricorso con cui la Procura aveva impugnato il provvedimento del Tribunale di prevenzione che a giugno aveva sospeso l’interdittiva antimafia, ammettendo Lavit al meno pesante controllo giudiziario e confermando che la società ha avuto solo una «occasionale» contiguità con i clan.
Lavit, 250 dipendenti, gestisce una lavanderia industriale cui è affidato tra l’altro l’appalto di lavanolo (biancheria e materassi) degli ospedali pubblici pugliesi. La cooperativa (difesa dal professor Vito Mormando e dagli avvocati Michele Laforgia e Francesco Marzullo) era riconducibile a Michele D’Alba, l’imprenditore di Manfredonia che per la Prefettura di Foggia (e la Dda di Bari) sarebbe in una posizione di contiguità con i clan perché sottoposto a una richiesta di pizzo che non avrebbe denunciato al punto di essere ora imputato per favoreggiamento. I giudici di appello (Quarta sezione, presidente de Scisciolo, relatore Savelli) hanno però confermato quanto già scritto dal Tribunale di prevenzione, andando anche oltre sulla ricostruzione del contesto: contrattando con due esponenti della Società foggiana, D’Alba avrebbe al limite provato a «limitare i danni derivanti dalla pretesa mafiosa» e non «ad ottenere vantaggi dalla sua protezione». Non esiste, dicono i giudici, un rapporto stabile con i clan: «Nulla - secondo la Corte d’appello - consente di ritenere D’Alba Michele (e nemmeno D’Alba Lorenzo) colluso con la mafia». Non si può dire, scrivono ancora i giudici, che D’Alba abbia voluto trarre profitto dal rapporto con il clan.
La Corte non ha condiviso nemmeno le censure della Procura rispetto al «self cleaning» avviato dalla coop foggiana dopo la notifica dell’interdittiva. Per l’accusa si tratta di misure solo apparenti. Secondo i giudici di appello la famiglia D’Alba non controlla più la maggioranza della società, perché non è stato provato che i dipendenti intestatari di alcune quote possano essere ritenuti «fedeli» all’imprenditore.
Il 14 marzo il Tar di Bari ha sospeso l’interdittiva antimafia emessa a dicembre dal prefetto di Foggia nei confronti della San Giovanni di Dio. Si tratta di un’altra cooperativa, ritenuta riconducibile a D’Alba, che controlla quattro strutture di lungodegenza e riabilitazione tra le province di Bari e Brindisi, gestendo servizi sociosanitari per le Asl e i Comuni pugliesi (oltre che in Basilicata e Sardegna). Anche San Giovanni di Dio ha chiesto l’ammissione al controllo giudiziario. A febbraio 2024 il Tar ha invece respinto il ricorso contro l’interdittiva all’altra coop del gruppo la Tre Fiammelle attiva nel settore del global service.