l'analisi
Si fa presto a dire cucina italiana perché nei nostri piatti oltre al cibo c’è un mondo di felicità
Certo, possiamo dire che è una rivincita su anni in cui per dire emigranti italiani si diceva «macaroni»...
Ma se diciamo cucina italiana, in fondo non diciamo tutto. Certo possiamo dire che è una rivincita su anni in cui per dire emigranti italiani si diceva «macaroni». Certo possiamo ricordare gli stessi «macaroni, tu me provochi e io mi te magno» di un Alberto Sordi americano a Roma (che rinuncia a condirli con mostarda e a innaffiarli di latte anziché di vino). Certo gli «Spaghetti western« sono stati una genialata cinematografica ma con un pizzico di perfidia da parte di chi così li ha definiti. Certo il Totò di «Miseria e nobiltà» che si mette gli spaghetti in tasca ci ha fatto passare tutti per miserabili ma quando lo eravamo davvero. Non da meno il Pulcinella che «i maccheroni sono buoni» ché glielo ha detto uno che glielo ha detto un amico che ha visto il cugino mangiarli. Certo non li trascurava neanche il Marinetti del futurismo che chiedeva l’abolizione della pastasciutta come «assurda religione gastronomica italiana». Certo la più importante rivista tedesca mise insieme i soliti spaghetti e una pistola per parlare delle nostre Brigate rosse. Certo «maccheroni» erano i napoletani per Cavour. E «pizza e mandolini» sono stati definiti i napoletani per decenni, modo poi di trattare tutti i terroni italiani a livello di gioiosi morti di fame.
Ché poi vai a vedere come la rivincita sia proprio nella pizza, diventata universale molto prima che il riconoscimento fosse attribuito a tutta la cucina italiana. Non c’è angolo di mondo in cui non campeggi una pizzeria, al taglio o a ciò che vogliamo. E non c’è angolo di mondo in cui puoi parlare islandese o burundese ma il «caffè ristretto» è caffè ristretto e il «cappuccino» è cappuccino. Tanto che l’elezione da parte dell’Unesco finisce per essere un riconoscimento tardivo, figlio del marketing più che di sapori e di odori diffusi e conosciuti da molto più tempo di questo 2025.
Così come già da quindici anni analogo patrimonio dell’umanità è la «Dieta mediterranea», anch’essa lanciata molto prima da due scienziati americani (Ancel e Margaret Keys) sorpresi dal Cilento e dai suoi centenari. I quali erano frutto non tanto di un piatto ma di uno stile di vita finiva nel piatto. E uno stile che sta al Sud come la Madonnina sta a Milano.
Ma si fa presto a dire solo cucina, effetto collaterale e terminale di qualcosa che «contiene moltitudini» non solo poeticamente. Contiene concetti di chimica e fisica, quelli che studiano la trasformazione degli elementi, per esempio a contatto col fuoco (dice niente il ragù tirato per ore?). Contiene concetti di biologia, quelli che degli elementi conoscono composizione e proprietà. Contiene concetti di nutrizionismo, quelli che ne prevedono gli effetti non solo sul nostro intestino. E contiene concetti di medicina, quelli che ti dicono cosa succederà con glicemia e colesterolo. Poi dicendo cucina si dice anche storia dell’arte, perché un piatto ben preparato ma soprattutto ben esibito è la conferma che questo è il Paese di Michelangelo e Caravaggio. Poi dicendo cucina si dice anche inventiva e creatività, conferma che questo è il Paese di un Leonardo da Vinci. E dicendo cucina si esprime anche gusto della scommessa (potremo mai affiancare una bistecca a una salsa di zucca) nel Paese di «Lascia o raddoppia». E cucina italiana contiene concetti, sì, di marketing, ciò che spiega come questo Paese si sia fatto tanto a lungo rimbambire da una Vanna Marchi.
Ma le moltitudini che conducono a un piatto sono anche altre. A consentire di dire pronto a tavola non sono solo il cuoco o la cuoca, la massaia o l’Ugo Tognazzi con tanto di grembiale. Cucina italiana è tutto un mondo agricolo nel quale la semina, la cura, la tecnica, l’amore sono un patrimonio della civiltà contadina. E patrimonio molto prima che di patrimonio universale parlasse l’agenzia dell’Onu che si occupa di cultura. Sembra che un piatto non possa contenerli ma contiene secoli. Secoli di schiene spezzate, di lavoro da sole a sole, di mani nodose come gli ulivi, di soste mangiando formaggio e cipolle, di tradizioni e di saperi antichi. Non meno di secoli di animali che erano gente di casa e di famiglia. Cucina è anche «prendete e mangiate, questo è il mio corpo», insomma sacralità.
Perciò si fa troppo presto a dire cucina. E a dire cucina italiana per sovrappiù. Ora furoreggiano Masterchef con toni più da terroristi che da conviviali. Toni da non avrai altro piatto all’infuori di me. Ma in verità vi dico che contiene più uno spaghetto aglio e olio che un ananas grigliato con miele, mandorle e cannella. Anzi vi dirò di più: dammi un pane, olio e sale e non ci sarà altro modo di dire felicità.