la riflessione

Quando la paura vince su tutto anche la guerra in Ucraina diventa una questione politica

Gino Dato

«Stanno usando la guerra per non indire le elezioni…». Donald Trump è feroce nell’imputare questo antico machiavellismo al governo ucraino. Ma è davvero così?

«Stanno usando la guerra per non indire le elezioni…». Donald Trump è feroce nell’imputare questo antico machiavellismo al governo ucraino. Una accusa assai cocente, tra le altre, se si pensa, per comparazione, al prezzo che comporta per quel popolo, se così fosse realmente, in vite umane e distruzioni. E auspica perciò che gli ucraini «debbano avere questa scelta», cioè quella del voto. I governanti di Kiev si affannano a replicare che basterebbero due-tre mesi per aprire le urne e tacitare l’accusa di essere una democrazia incapace di voto. Al di là del confronto acceso, però, è il machiavellismo assai sottile della guerra «al posto di» che dobbiamo mettere a fuoco. La guerra si configura come un disegno non nuovo – dicevamo – nelle strategie e nei piani che gli uomini di potere s’ingegnano contro la gente comune: provoco, agisco e fomento la guerra perché i nemici, gli apparati di offesa e difesa, gli strumenti di distruzione e i fini servono a obnubilare gli altri problemi che un popolo può avere, che uno Stato o una classe dirigente non riescono a dirimere.

Ma è realmente così? Se applichiamo lo stratagemma ad altri contesti storici non potremmo negare che le guerre spesso si combattono per esternalizzare condizioni interne insostenibili o irresolvibili, per esempio la sperequazione tra le classi e i ceti nella distribuzione delle risorse e nelle opportunità da offrire. Fare la guerra serve a creare uno stato di allarme e di imminente apocalisse, persino può cementare le volontà, coagulare gli ardori, sollecitare patriottismi, galvanizzare rispetto a gravi ferite e persino cadute dell’ordine. Le guerre appaiono un sofisma irrinunciabile per una cultura, quella europea, che discende dall’Occidente e non ha nel suo armamentario il pragmatismo di stampo americano. La guerra servirebbe perché, secondo Trump, «l’Europa non sa cosa fare»; e i suoi leader «parlano troppo ma non stanno producendo».

Le guerre fungono allora a tenere in piedi sistemi immobili, da un lato, e, dall’altro, narcotizzano gli scontri sociali e i conflitti tra classi dirigenti e rappresentati, mascherano gli squilibri interni. Ammettiamo pure che i governanti di Kiev l’abbiano così pensata, anche se è difficile dar ragione al presidente MAGA e convenire sulla presunta astuzia dell’Ucraina, una dottrina esportabile anche negli Usa. Quello che rimane comunque indubitabile è che le guerre non riescono mai a sconfiggere la paura. Anzi, è proprio la paura la gran signora che insorge quando la guerra si fa lunga estenuante ricca di perdite. Quando la paura trionfa la guerra è la continuazione della politica – sì, aveva ragione il generale prussiano Carl von Clausewitz – perché le classi dirigenti la usano per dare ai governati quello che non riescono a ottenere con le strategie di gestione normale della cosa pubblica. Se è così, allora dobbiamo sperare che nuovi pensieri e risoluzioni attraversino le menti dei potenti, generando nelle generazioni future una volontà di pace e di pensiero costruttivo.

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