l'analisi

Se la destra diventa «pop»: da Atreju aI confronto tutto quanto fa spettacolo

Francesco Intini

Spesso siamo portati a osservare la politica come una sequenza di micro-eventi. Piccole scosse che, nel breve periodo, possono produrre oscillazioni nelle dinamiche di consenso o nella popolarità di un leader

Spesso siamo portati a osservare la politica come una sequenza di micro-eventi. Piccole scosse che, nel breve periodo, possono produrre oscillazioni nelle dinamiche di consenso o nella popolarità di un leader: il video virale, la polemica del giorno, l’uscita sopra le righe. È un approccio comprensibile, ma inevitabilmente parziale, perché rischia di distrarci da trasformazioni più profonde, lente e cumulative, che non hanno una correlazione immediata con indicatori misurabili ma che, nel tempo, ridefiniscono gli spazi del discorso pubblico.

La 17ª edizione di Atreju è oggi uno degli esempi più chiari di questa dinamica. La festa che nacque come manifestazione politica promossa e organizzata dalle giovanili di centrodestra – prima Alleanza Nazionale, poi Il Popolo della Libertà, infine Fratelli d’Italia – si è trasformata in qualcosa di profondamente diverso. Quello che si è consumato nei giardini di Castel Sant’Angelo a Roma, dal 6 al 14 dicembre, non è stato un semplice evento politico, ma un ulteriore passaggio di un processo che intreccia politica, cultura pop e spettacolo in una forma nuova per la politica italiana contemporanea – la Leopolda di renziana memoria era, strutturalmente e simbolicamente, un’altra cosa.

Atreju nasce – e si ricorda così fino a due, tre edizioni fa – come una festa identitaria, fortemente connotata, militante, radicale. Un luogo coerente con un immaginario politico fatto di patriottismo, sovranismo, evidenti polarizzazioni. Oggi, seguendo la traiettoria di medio-lungo periodo disegnata dalla sua leader, è diventata altro. Non perché abbia rinnegato le proprie origini, ma perché ha saputo trasfigurarsi, trasformandosi in pochissimo tempo in un evento ormai glamour, esplicitamente pop, ostentatamente trasversale. Un luogo in cui il marchio di Fratelli d’Italia non è più presente da nessuna parte e la festa è diventata, improvvisamente, di tutti. Una festa nazionalpopolare anche nel senso più letterale del termine: nazionale e popolare.

Tra le presenze di questa edizione figurano volti che abitualmente associamo non alle piazze politiche, ma alla cultura di massa italiana: Carlo Conti, Ezio Greggio, Mara Venier; attori come Raoul Bova, Nicoletta Romanoff, Chiara Francini; campioni dello sport come Gianluigi Buffon, Fefè De Giorgi e Julio Velasco, addirittura premiati nel corso della manifestazione.

Non sono comparse casuali. Queste presenze contribuiscono a una riconfigurazione del terreno politico: coniugano l’appeal della cultura popolare con l’agenda istituzionale del Paese. Atreju non è più solo una piattaforma – comunque di parte – di confronto su temi come la giustizia, la sicurezza o gli esteri; è un set in cui la politica parla con linguaggi e figure che tradizionalmente appartengono alla televisione, allo spettacolo, alla cultura popolare in generale. Uno spazio capace di parlare anche a chi non si riconosce nei valori tradizionali del centrodestra, e che magari non si percepisce nemmeno come politicamente coinvolto.

Questa evoluzione non produce effetti immediati e quantificabili. Non sposta voti domani mattina. Ma segna un terreno che, nel medio e lungo periodo, influisce profondamente sulla percezione pubblica di che cosa sia politica e di chi possa legittimamente parlarne. Quando un festival politico conquista l’attenzione dei media non solo per i panel istituzionali ma per la presenza di protagonisti che appartengono alla cultura popolare, il messaggio è duplice: che l’agenda tematica la dettano loro, e che la politica oggi compete anche sul terreno dell’esperienza e dell’immaginario condiviso.

Atreju non si limita più a rappresentare una parte politica: i telegiornali aprono su ciò che accade lì non (solo) perché si tratta della «festa di Fratelli d’Italia», ma perché viene percepita come uno snodo rilevante del dibattito nazionale.

Ed è qui che il discorso si fa più profondo. Se volessimo usare una categoria classica per descrivere ciò che sta accadendo, potremmo dire che non siamo di fronte a una semplice operazione di comunicazione, ma a un tentativo di costruzione di egemonia culturale, nel senso gramsciano del termine. Una categoria che, non senza una certa ironia, oggi torna utile per leggere ciò che accade a destra, così come può capitare che la stessa premier citi Nanni Moretti nel suo discorso di chiusura per punzecchiare Elly Schlein.

Perché il potere non si consolida solo quando si vincono le elezioni, ma quando si riesce a rendere «naturale» la propria visione del mondo, quando occupa i luoghi in cui si forma il senso comune. Atreju oggi lavora esattamente su questo piano. Non divide più, né prova a persuadere ma, anzi, normalizza. E lo fa senza proclami ideologici, senza rotture evidenti, ma attraverso una lenta e costante ridefinizione di ciò che è centrale, pop, glamour nella politica italiana di oggi.

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