L'analisi

Trump mattatore assoluto si gode il successo: ma è caccia a coraggio e autorevolezza

Carmen Lasorella

La prospettiva di uno spiraglio di dialogo tra israeliani e palestinesi, fermo al momento al futuro di Hamas, lascia invece incerto l’orizzonte di pace

Sotto il cielo di Sharm el Sheikh nel pomeriggio di oggi, finalmente, l’agognata firma. Trump si godrà il suo successo, davanti agli occhi del mondo, nel traguardo certo della tregua in corso, della riduzione dell’occupazione israeliana di Gaza, dell’arrivo dei convogli di aiuti umanitari e del ritorno a casa dei poveri ostaggi israeliani, i sopravvissuti, dopo due anni di indicibili sofferenze. La prospettiva di uno spiraglio di dialogo tra israeliani e palestinesi, fermo al momento al futuro di Hamas, lascia invece incerto l’orizzonte di pace. Non è un momento storico, ma di sicuro quel principio che mancava da troppo tempo, per arrivare a che cosa, non lo sappiamo ancora. Giunge «crudelmente in ritardo», come ha commentato Amnesty Iternational, già che l’accordo ricalca il piano Biden del maggio dello scorso anno, dunque con un sovraccarico di più di 17 mesi di morte, sofferenze e devastazioni, ma approda nel porto di Sharm el Sheikh, grazie alla rabbiosa determinazione del presidente americano, che non avendo motivazioni ideali, ha fatto i suoi calcoli e tirato le somme, aggiungendo il sovrapprezzo del compiacimento per il proprio ego smisurato. Noi possiamo annotare, che nasce sotto una buona stella.

La grande storia è già passata da Sharm el Sheikh, luogo strategico sulle rotte arabo-israeliane, segnando in passato una svolta nel Medioriente. Chissà che non possa ripetersi, benchè i sentimenti allora fossero tenaci e gli affari non punitivi della politica.

Forse, avranno raccontato a Trump di Moshe Dayan… (non che ci sia alcun accostamento tra i due). Ricordate quel generale israeliano con la benda sull’occhio sinistro, eroe della guerra dei sei giorni contro i paesi arabi prossimi a Israele, in particolare contro l’Egitto e poi di quella del Kippur (parliamo degli anni ‘60- ‘70)? Moshe Dayan, irriducibile sostenitore dell’occupazione a oltranza dei territori conquistati con le armi, aveva un motto: «Meglio Sharm el Sheik senza pace, che la pace senza Sharm el Sheikh». Ma cambiò idea quando capì che la pace con l’Egitto, di lì a poco firmata, sarebbe stata la soluzione migliore per la sicurezza di Israele. Semplificando, il brillante e cinico soldato, poi politico impegnato, aveva scoperto l’importanza e il valore della pace. Non aveva avuto il tempo di costruirla, stroncato da un tumore, ma aveva condiviso il progetto del presidente Rabin, nonostante fossero rivali.

Si giunse alla firma degli accordi di Oslo con Arafat nel 1993 e poi nel 1995, un percorso irto di ostacoli, ma possibile, bruciato tuttavia dalla pallottola di un fondamentalista della destra ebraica (si sbriciolò subito il tentativo di addossare la colpa ai palestinesi) che uccidendo Rabin, affossò la speranza.

La Storia non si ripete, ma continua a sorprendere. Il costo della pace è minore di quello della guerra, anche se per mantenerla non bisogna smettere di pagarlo. È meno controllabile, ma si traduce in sicurezza. Nonostante le barriere dogmatiche del sionismo, in Israele lo avevano capito già negli anni settanta e il clima aveva cominciato a cambiare. La tendenza si sarebbe rafforzata nei successivi decenni, ottanta e novanta, coltivando il dibattito che prima era mancato. Si espandeva e rafforzava la democrazia. Si poteva discutere senza essere tacciati di disfattismo. Venne contestato il principio dell’inevitabilità della guerra, si affrontarono i temi della responsabilità nei conflitti e della visione militare del patriottismo, si arrivò a mettere in discussione il cardine sionista del primato degli ebrei rispetto a chiunque altro, che giustificava ai loro occhi la condizione di vittime e mai di carnefici, nonostante la denigrazione e la deumanizzazione dei palestinesi, per i quali si era arrivati a immaginare uno Stato, utile alla pace. (Sondaggio del 1999 con la maggioranza degli israeliani favorevoli). Fu una spinta poderosa, smontata tuttavia con puntuale determinazione negli anni successivi.

Oggi, a distanza di trent’anni, il tema della creazione di uno stato palestinese non è all’ordina del giorno, né è contemplato nell’accordo alla firma. Anzi, secondo un sondaggio appena fatto in Israele, dopo il rilascio degli ostaggi sopravvissuti, il premier Netanyahu che ha escluso tassativamente questa possibilità, indifferente al peso delle atrocità dei due anni di guerra in conseguenza delle sue scelte, verrebbe premiato con tre seggi in più alle elezioni del prossimo anno, pensando a un voto se possibile anticipato per capitalizzare il vantaggio.

In sostanza, i sentimenti israeliani sarebbero di nuovo imprigionati nella retorica suprematista della destra radicale sionista, arroccata sull’obiettivo del Grande Israele «dal fiume al mare», antico come le radici del conflitto. E la propaganda martellante e a senso unico promossa dal governo estremista di Netanyahu, in carica da tre anni, con alle spalle però tre lustri (15 anni) di potere, ha inciso sulla narrazione dei fatti, che vengono puntualmente distorti, quando non sono negati ed ha puntato sulla paura piuttosto che sulla sicurezza, diffondendo l’odio verso il nemico inevitabile, da ultimo Hamas. L’effetto è tornato ad essere la negazione dell’identità palestinese e del suo diritto all’autodeterminazione. Per il professore Daniel Bar-tal, insigne studioso israeliano dei fenomeni sociopolitici, soprattutto nel suo Paese: «La società israeliana sarebbe diventata sempre più estremista nelle attitudini verso il conflitto e verso gli elementi democratici dello Stato».

L’irruzione sulla scena di Trump non ha certo migliorato il quadro, né diminuito il vuoto di giustizia. Nonostante il presidente abbia appiccicato piume di colomba all’aquila americana, resta lui il campione delle relazioni aggressive in una visione muscolare, messianica e suprematista, estranea ai principi ma dettata dai vantaggi. E chi si oppone – come ha dichiarato – diventa suo nemico, che lui odia. Si potrebbe arrivare all’assurdo che la paranoia del business favorisca qualche concessione al momento non prevista. Ma il minimo per i palestinesi rimarrebbe sempre il massimo per gli interessi israeliani, mentre lo stallo penalizzerebbe gli uni e non gli altri, facendo di Gaza, di nuovo un limbo di bisogni irrisolti. Né è ipotizzabile un investimento massiccio nella fiducia o nella correttezza delle narrazioni, che potrebbe essere «sparata», senza uccidere, favorendo piuttosto il dialogo. Dove potersi allora aggrappare alla speranza di un futuro di pace, comune agli israeliani ed ai palestinesi, che si ritrovano nella distruzione pressoché totale del proprio ambiente, senza case, scuole, ospedali e moschee e senza alcun mezzo di sostegno, già che i territori più ricchi sono rimasti sotto il controllo dell’esercito israeliano, come pure le vie di entrata e di uscita da Gaza per qualsiasi diritto o commercio?

E quand’anche i guerriglieri di Hamas deponessero le armi sulla via dell’esilio, non sarebbe solo una questione di tempo la rinascita della ribellione e dunque la violenza contro i soprusi e la schiavitù subita nel proprio Paese? Potrebbe mai bastare la presenza di una forza internazionale di stabilizzazione, variamente assortita per evitare il conflitto sempre in agguato? E cosa ne sarebbe della Cisgiordania, dove i palestinesi in questi giorni impegnati nella raccolta delle olive, sono il bersaglio preferito delle armi dei coloni, aumentati a dismisura su un territorio che non è il loro?

Ancora, è immanente il rischio i incidenti e provocazioni, come ha sottolineato il ministro degli esteri turco, riferendosi espressamente ad Israele. Le domande sono tante, tuttavia possono aspettare qualche ora, già che oggi è il giorno dell’enfasi per il successo di Trump che ha fermato la guerra, nell’omaggio agli ostaggi sopravvissuti, finalmente restituiti alla libertà. C’è da augurarsi però che se ne stia già parlando tra gli invitati alla firma del documento di Sharm el Sheikh, sia arabi, che ottomani, europei o americani, considerato che accanto al popolo palestinese non ci sono né i mediatori del negoziato, né la pattuglia dei sedicenti imprenditori/umanitari pronti a investire nella ricostruzione, raccogliendo le briciole degli interessi sauditi, americani e israeliani, già strutturati nella governance annunciata nel piano americano per Gaza a guida Tony Blair, una figura particolarmente invisa alle latitudini mediorientali.

Di fatto, non ci sono garanzie per il popolo palestinese, che potrebbe continuare ad essere umiliato, torturato dall’abbandono e privato dei propri diritti, come lo sono stati - secondo le agenzie umanitarie - le migliaia di prigionieri, uomini, donne e bambini, lasciati a languire nelle carceri israeliane in questi due anni, in assenza di accuse documentate.

Ed è tornato e probabilmente tornerà nei giorni a venire il nome di Manwar Bargouti, definito il Nelson Mandela palestinese, nonostante la sua esclusione dalla lista dei prigionieri palestinesi rilasciati. Condannato a cinque ergastoli da tribunali, di cui non ha mai riconosciuto la legittimità, potrebbe dare una speranza al suo popolo, se non uno Stato. L’uso del potere e gli interessi sono bastati fin qui, con Trump mattatore assoluto sulla scena, ma per conservare la pace serviranno autorevolezza e coraggio.

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