L'analisi
Alla Fiera del West la primavera pugliese finisce a cazzotti
È finita un’epoca, ed è finita con una scazzottata (liberatoria?) tra ex amici, con una relazione del presidente della Regione, a chiusura di un decennio di governo, gettata nel cassonetto per parlare a braccio manco fosse un’assemblea del Pd
È finita a ceffoni, come nello stile del personaggio. È finito così il ventennio di Michele Emiliano, a cazzotti in faccia al successore (nonché pupillo, erede, figlioccio, chiamatelo come vi pare), quell’Antonio Decaro seduto in prima fila, ancora abbronzato e sereno all’entrata e uscito verde e accigliato dal centro congressi. Un finale in guerra, come nello stile del presidente-wrestler Michelone, come il titolo del suo libro, come in un film di Sergio Leone, dove le lunghe pause e attese dello spaghetti-western finiscono in sparatorie. Un film nello scenario decadente della (fu) Fiera del Levante, dove Aldo Moro decantava il futuro del Sud e Silvio Berlusconi animava le folle sul Mezzogiorno da bere, con stuoli di manager rampanti e modelle da urlo che affollavano l’inaugurazione.
È finita un’epoca, ed è finita con una scazzottata (liberatoria?) tra ex amici, con una relazione del presidente della Regione, a chiusura di un decennio di governo, gettata nel cassonetto per parlare a braccio manco fosse un’assemblea del Pd.
Emiliano-Decaro, un duo indissolubile su una lunga stagione di rinascite (dal crollo della Bari palazzinara di Punta Perotti, con tutta la borghesia di Tatarella dentro che giocava a burraco, ai parchi della rinascita dall'amianto, dai centri storici inavvicinabili ai centri storici invasi dai crocieristi gaudenti, dall’aeroporto che sembrava Srebrenica dopo la guerra ai voli internazionali nel mondo). È finita con una resa dei conti: la «Fiera delle Vanità» di Thackeray, dove le donne ingioiellate e gli imprenditori incravattati sfoggiavano i successi di una vita di fatica passata tra il commercio e le costruzioni,è diventata la «Fiera della resa dei conti», il ring della politica dove il «vecchio» Emiliano deve congedarsi dal ventennio che deve consegnare al «nuovo» Decaro (si fa per dire..) e recrimina di non essere stato accompagnato all’uscita su un tappeto rosso, come si conviene a chi ti lascia 20 anni di «primavere"» ma con un sonoro calcio nel culo.
L’avversario, l’ex pupillo oggi diventato «traditore», assiste impassibile al know out subìto. Non si alza ad applaudire al commiato, gentile e misurato (è nello stile del sindaco di Bari) che Leccese rivolge al «papà» Emiliano per le primavere vissute insieme. Non si scompone dinanzi al primo fendente sulla «tristezza» di questa campagna elettorale, avviata con quella faccia da funerale mentre un tempo le macchine da guerra della sinistra erano (almeno sulla carta) «gioiose». Non reagisce al secondo colpo (questo è allo stomaco, fa male) quando il mentore gli ricorda il valore della «gratitudine» in politica. Va via il successore, silente, scuro in volto e acclamato perfino dai suoi avversari (sì, la destra dormiva anche ieri in platea il sonno che la accompagna da tempo, perfino dinanzi all’«OK Corral» della sinistra) e sicuro del consenso che dopo la Fiera, Confindustria, Cgil-Cisl-Uil, gli ospedali e le pizzerie, gli albergatori e gli spazzini, i proPal fuori ai cancelli e i palazzinari sconfitti, tutti uniti gli tributeranno al momento opportuno, quello delle urne, quello dove Antonio-Sinner, il sindaco più amato del mondo, vince 6-0 e non c’è n’è per nessuno, alle Comunali o alle Regionali, alle parlamentarie o alle comunitarie, ovunque ci sia una coppa da prendere.
La coppa, però, è amara e la faccia alla fine del ring è assai simile a quella della festa Pd di Bisceglie, dove il campione - tentato di mollare la Puglia di Emiliano che gli sta stretta per abbracciare la libertà dello scranno di Bruxelles - si è ritrovato stritolato dai doveri del campo largo imposto dalla leader Schlein, cooptato ad accompagnare da governatore vincente in Puglia la scalata di Elly verso la montagna di Palazzo Chigi. Proprio quella scalata che lui, lo Jannik delle Puglie, sognava di fare non da soldato, ma da generale. E invece gli tocca la guerra della Fiera, lo spaghetti-western di Bari tra gli scenari cadenti del deserto di Sergio Leone.
Già, la Fiera. L’odore delle merendine Aida e dei formaggi Bayernland non c’è più. Al centro congressi, per l’inaugurazione, non sfilano più i manager di Stato (Eni, Enel, Fs, Fiat e chi più ne ha più ne metta), non ci sono i capitani d’industria del Nord che plaudono al Sud rigoglioso e mediterraneo di Bari né i consoli o gli ambasciatori che sondano dove dirottare gli investimenti del loro Paese. Anzi, a dirla tutta non si parla proprio né di economia né di Mezzogiorno, non un cenno sui 10 anni di regione trascorsi, sullo sviluppo o meno creato, sull’evoluzione di alcuni sistemi produttivi che ieri fabbricavano scarpe cinesi dal Salento e oggi a Grottaglie progettano brevetti per l’aerospazio. Niente, neanche un cenno alla tortuosa transizione dell’Ilva: leggetevi la relazione - dice Michelone il wrestler - ho da scazzottare con Antonio Sinner.....
Si chiude il sipario della Fiera che fu, il centro congressi che dava i natali alle politiche del governo di turno per il Sud si svuota attonito dopo aver assistito al match. La Fiera, ora, tornerà a vivere nelle sue strade piene di chincaglierie delle Nazioni, voci gracchianti dai megafoni che annunciano spot anni ‘70, auto di concessionarie che ti compri pure su Amazon e cani-robot dell’esercito che gironzolano telecomandati per vagheggiare un futuro che sembra non arrivare mai da queste parti. La festa dello spaghetti-western è finita, ci rivediamo tra un anno negli scenari della Hollywood abbandonata di Sergio Leone. E non ci sarà nemmeno un «OK Corral» a svegliare tutti dal sonnolento autunno dell’economia, seppellita con le scazzottate sulle «primavere pugliesi».