L'analisi

Basta meline sull’Ilva: il futuro dell’acciaio è all’ultima curva

Biagio Marzo

Siamo in trepida attesa del 15 settembre, quando si decideranno le sorti di Acciaierie d’Italia (ex Ilva)

Siamo in trepida attesa del 15 settembre, quando si decideranno le sorti di Acciaierie d’Italia (ex Ilva). Giorno ultimo per la presentazione delle offerte vincolanti. Il clima non è dei migliori: in tre anni di gestione del ministro Adolfo Urso si è visto molto fumo, peraltro inquinante, e poco arrosto. I sindacati metalmeccanici sono pronti a dare battaglia e, vista la situazione ormai a un punto di non ritorno, non è escluso un nuovo autunno caldo.

Si attende di conoscere il nuovo piano industriale, finora tenuto riservato, predisposto dai commissari straordinari per il bando di vendita di AdI. È il secondo: il primo, presentato nell’autunno 2024, è già stato accantonato. Di questo nuovo documento si sa soltanto che ruota attorno alla decarbonizzazione: tre altiforni a Taranto per circa 6 milioni di tonnellate annue, l’incognita di Genova per arrivare a 8 milioni (economia di scala) e un possibile polo DRI a Gioia Tauro per la produzione di preridotto. La scelta della località calabrese sa di profumo elettorale, visto che si andrà a votare alle regionali, in autunno. Resta l’incognita occupazionale: quante migliaia di lavoratori servirebbero in un’azienda così strutturata? Si parla di appena un terzo degli attuali addetti. Una configurazione che distribuirebbe la produzione su più siti, con costi inevitabilmente più alti oltreché inquinanti. Una scelta che sembra più frutto di una soluzione ministeriale sollecitata dal responsabile del dicastero, Urso, che di una vera politica industriale.

Nel frattempo, lo stabilimento di Taranto lavora solo con Altoforno 4 (circa 2 milioni di tonnellate/anno) e si prevede la sostituzione con Afo 2. Afo 1, dopo l’incendio, è sotto sequestro: anche per questo Baku Steel ha ridotto drasticamente l’interesse, ritirando l’offerta iniziale. Il MiMit ha riaperto la gara a ridosso di Ferragosto, ma le incognite restano. L’unico «cavaliere bianco» è il gruppo indiano Jindal, già affacciatosi più volte senza esito: sarebbe la terza. Il quadro occupazionale è ormai critico. Il ricorso massiccio alla cassa integrazione, anche straordinaria e spesso a rotazione, comprime i redditi delle famiglie e colpisce duramente indotto e appalti, tra sospensioni e contratti ridotti. Senza certezze su tempi, coperture e prospettive, la CIG rischia di diventare un limbo permanente. Servono impegni concreti su durata e finanziamento degli ammortizzatori, garanzie ambientali, occupazionali durante la transizione, percorsi di riqualificazione per DRI e forni elettrici, tutela dell’indotto locale.

Sul fronte istituzionale, Urso ha incontrato la sindaca di Genova, Salis, e il presidente della Calabria, Occhiuto; solo ora annuncia un confronto con il sindaco di Taranto. Anche Jindal ha dialogato con Genova, evitando Taranto. Le istituzioni ioniche non possono più giocare a mosca cieca: serve una posizione chiara e unitaria.

La vicenda somiglia al gioco delle tre carte: lo Stato, attraverso il MiMit, chiede al compratore di accettare un piano industriale imposto dai commissari, con il rischio di uno «spezzatino» degli asset.

Nel frattempo, il mercato internazionale resta aggressivo: dumping cinese dopo la bolla immobiliare, prezzi bassissimi e costi energetici italiani elevati. Nel 2024 l’Italia ha prodotto circa 20 milioni di tonnellate di acciaio, in calo del 5%, restando seconda in Europa dopo la Germania. L’80% dell’acciaio italiano è secondario (da rottame), mentre Taranto è l’unico sito nazionale a ciclo integrale. La transizione è inevitabile: senza poli DRI affidabili, la decarbonizzazione resta uno una parola vuote, solo uno slogan. E resta aperto il nodo del gas, visto che l’amministrazione comunale si oppone al rigassificatore.

Una volta per tutte, ministro e Comune di Taranto devono dire chiaramente cosa fare: tempi, investimenti, tutele ambientali, sociali e piano di piena occupazione dentro e fuori la siderurgia. Non c’è più spazio per meline.

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