L'analisi
Il tetris delle regionali, in Puglia va in scena l’autunno dei patriarchi
L’autunno dei patriarchi è giunto a un impasse inedito, il cui esito resta avvolto da una fitta nebbia. Quando si diraderà, il panorama politico dell’area progressista non sarà più quello di prima. In un senso o nell’altro, la politica pugliese cambierà
L’autunno dei patriarchi è giunto a un impasse inedito, il cui esito resta avvolto da una fitta nebbia. Quando si diraderà, il panorama politico dell’area progressista non sarà più quello di prima. In un senso o nell’altro, la politica pugliese cambierà.
Antonio Decaro si propone come interprete di un progetto di discontinuità: senza Michele Emiliano e Nichi Vendola, con l’obiettivo di rinnovare le liste. Potrebbe puntare su candidati del tutto nuovi, oppure su un mix di volti alla prima esperienza e figure già presenti ma non logorate. In caso contrario, rischierebbe di riproporre un «nuovo» in salsa vecchia. Sennonché, con un presidente barese si affaccia una preoccupazione concreta: il ritorno del «Bari-centrismo», vale a dire la tendenza a concentrare attenzione e risorse sul capoluogo regionale, a scapito delle province ionico-salentine. Un rischio che riaccende vecchie ferite, con l’area sud della regione che teme di essere ancora una volta marginalizzata negli equilibri di governo e territoriali. La voce di Lecce, Brindisi e Taranto si sta facendo sentire con forza per non soccombere. Non a caso, autorevoli dirigenti dem e parlamentari - come Claudio Stefanazzi - hanno già sollevato apertamente il problema: il timore che l’area ionica salentina, in un futuro prossimo, non contino granché nelle scelte strategiche. Non è «lu rusciu de lu mare», come nel celebre canto popolare salentino, ma il dibattito reale è, dialetticamente, pressante dentro il Pd. E, comunque, nelle tre province del Sud Puglia si invoca da tempo un nuovo corso, capace di riequilibrare la rappresentanza in giunta e negli incarichi di sottogoverno e, conseguentemente , spezzare un assetto considerato squilibrato. Vendola, Emiliano e Decaro appaiono oggi in una sorta di «stallo messicano», per restare nell’immaginario dei film di Sergio Leone: «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto». Tradotto in politica: chi ha 500 mila preferenze sulle spalle pesa più di chiunque altro. Emiliano lo dimostrò nelle sue due elezioni a presidente della Regione; Vendola fece lo stesso fino a quando fu in campo.
Alle ultime regionali, invece, Sinistra italiana non riuscì a eleggere alcun consigliere, non avendo in lista il presidente di Si. Nonostante ciò, Emiliano rispettò il patto con Vendola e nominò assessore all’Ambiente Anna Grazia Maraschio: un’esperienza breve, che costò al partito la perdita di «Filippo e ’o panaro» e aprì uno scontro frontale. Oggi Sinistra Italiana, in tandem con i Verdi - Avs - punta a ricandidare Vendola, pur di garantirsi almeno un seggio. Ma il suo «valore aggiunto» elettorale resta incerto: dopo dieci anni fuori dal campo, la candidatura appare più una scommessa che una certezza.
Decaro, «l’uomo con il fucile», resta dunque l’unico con il potere contrattuale di decidere se correre senza sottostare a condizionamenti. L’uscita di Angelo Bonelli - pronto a candidare Vendola qualora Decaro si ritirasse - somiglia più a una provocazione: una sorta di pistola ad acqua, che a un’alternativa reale. Il Pd non accetterebbe mai una candidatura fuori dal proprio controllo. Con il civismo ha pagato costi elevati, ora, vuole un presidente di stretta osservanza. Vendola ed Emiliano hanno avuto indubbi meriti: il primo ha proiettato il «brand Salento» nel mondo, il secondo ha accompagnato la crescita della regione rafforzando al contempo la propria parabola politica. Al dunque, la candidatura di Emiliano è una questione, prettamente, del Nazareno, quella di Vendola riguarda la coalizione del cosiddetto campo largo. Di questo ne sono conviti in molti compreso Goffredo Bettini che non è uno che le manda a dire nemmeno a sua maestà.
Tuttavia, la politica - come la vita biologica - è fatta di cicli. Nessuno sfugge a ciò che Gramsci chiamava «connessione sentimentale» tra intellettuali (oggi diremmo politici) e popolo: senza la capacità di ascoltare e guidare, non si colgono i bisogni collettivi né li si inserisce in un disegno più ampio di cambiamento. «Non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione», scriveva Gramsci. Quando svanisce, il politico di turno è meglio che si metta l’anima in pace lasciando ad altri dirigenti lo scettro del comando.
Intanto, nel dibattito pugliese si è inserito il presidente della Campania, Vincenzo De Luca. Dopo aver lanciato battute al veleno contro Fico e Schlein, ha stretto un accordo con entrambi: un’operazione bonapartista che spianerà la strada alla segreteria, nel Pd campano, al figlio. Poi, con nonchalance, si è messo a impartire lezioni di politica e morale. Il confronto tra i tre leader pugliesi mostra invece un vuoto di visione. Manca un confronto dialettico alto e prevale la logica riduttiva del «candidarsi o non candidarsi». Non emerge la forza di una sfida autentica al cambiamento.
Sul fronte opposto, la destra pugliese non sta meglio, anzi, non ha né candidati certi né progetti. Solo di recente si è mosso qualcosa polemizzando intorno al nome di Mauro D’Attis, candidato in pectore di Forza Italia. Il primo ad aver lanciato la sfida e che crede fortemente ad essere candidato. Ma, a parte l’auspicio di FdI - «pure in Puglia possiamo vincere» -, lo slogan serve più a darsi coraggio che a convincere. Ultimamente, ha fatto capolino la disponibilità - a denti stretti - di candidarsi da parte di Marcello Gemmato. La destra, pugliese, finora, sembra tanto la Fortezza Bastiani de Il deserto dei tartari, in attesa di un candidato calato da Palazzo Chigi a Bari.
Il quadro pugliese è ambiguo con tanti nodi da sciogliere. Il rischio che si corre che Decaro finisca per somigliare a un Godot che non arriva mai, decidendo di non candidarsi per non ritrovarsi presidente dimezzato, come il Visconte di Calvino. Ma il diavolo sta nei dettagli: libero dagli impegni di governo regionale, giocherebbe la carta forte per la segreteria nazionale del Pd, oggi spostata da Schlein su posizioni più a sinistra, in alleanza con la Cgil e con forze che competono nello stesso «mercato» elettorale massimalista. Scelta che lascia scoperti milioni di elettori moderati. È questo il ceto medio, colpito da pensioni basse, fisco e caro vita. In Puglia rappresenta una fetta ampia di società che, nel passato, ha guardato al centrosinistra riformista. Oggi, senza un chiaro punto di riferimento partitico e politico, si affida, di volta in volta, al leader più vicino alla sua sensibilità. Ma se a novembre non troverà sulla scheda un candidato capace di rappresentarlo, la disaffezione rischia di colpire duramente tutta la politica, a sinistra come a destra: incapaci di proporre «il presidente giusto al posto giusto».