L'analisi

Nel Parlamento «svuotato» spunta la tentazione della settimana cortissima

Biagio Marzo

«Voce dal sen fuggita», verrebbe da dire. A conclusione della riunione dei capigruppo, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, ha avanzato una proposta destinata a far discutere: abbreviare ulteriormente la settimana lavorativa dell’Aula

«Voce dal sen fuggita», verrebbe da dire. A conclusione della riunione dei capigruppo, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, ha avanzato una proposta destinata a far discutere: abbreviare ulteriormente la settimana lavorativa dell’Aula. Non più «settimana corta», ma cortissima: via anche il venerdì, tradizionalmente riservato alle interpellanze, spesso legate a temi locali dei parlamentari proponenti.

L’ultima seduta utile? Il giovedì. Il lunedì, si sa, Montecitorio è deserta. Qualche «mosca bianca» si aggira tra i corridoi, più per affari personali che per impegni parlamentari. C’è chi approfitta per una capatina dal barbiere, una colazione alla buvette, o una chiacchiera nel Transatlantico con un collega anch’egli capitato lì «per caso». Se incrocia un giornalista, tanto meglio: due chiacchiere, un retroscena, un’anticipazione.

A fronte di questa proposta - in bilico tra realismo e paradosso - il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, ha saggiamente deciso di prender tempo. Proposta rimandata a data da destinarsi. Nel frattempo, via Bellario, sede storica della Lega, ha bocciato senza se e senza ma la proposta di Ciriani. Probabile sia stato un ballon d’essai da parte del ministro. Eppure, va detto: la sortita di Ciriani non è del tutto priva di logica. Da tempo, ormai, il Parlamento ha perso la sua centralità costituzionale. Da parecchio, non è più il luogo in cui si legifera: è il Governo a dettare il ritmo, a dettare i testi, a dettare l’agenda. Il baricentro della politica si è spostato da Montecitorio a Palazzo Chigi. Il Governo, più che governare, legifera per decreto. Il decreto legge - atto normativo che dovrebbe essere riservato a «casi straordinari di necessità e urgenza» - è diventato la normalità. E al Parlamento resta una funzione residuale: convertire (più o meno acriticamente) i testi già decisi altrove. I lavori d’Aula si assottigliano, mentre il vero peso ricade sulle Commissioni parlamentari, divenute il luogo dove si consuma quel poco di confronto rimasto.

In questo contesto, la settimana corta non è che la fotografia burocratica di un processo politico già in atto: meno Parlamento, più esecutivo. Meno confronto, più ratifica. Meno tempo in Aula, più decreti da rincorrere. In fondo, a cosa serve restare a Montecitorio fino al venerdì, se tutto è già deciso. A dirla tutta, i parlamentari lavorano - quando lavorano - soprattutto nelle Commissioni. È lì che si consuma ciò che resta del lavoro legislativo. Una Commissione, per definizione, è un collegio «endorganico»: composta cioè da parlamentari incaricati di esaminare una determinata materia o una questione specifica, attribuita alla sua competenza dal regolamento, da una deliberazione dell’Aula o, talvolta, persino da una legge.

Ma da quando il numero dei parlamentari è stato drasticamente ridotto - taglio salutato da tutti i partiti come segno della diminuzione dei costi finanziari e di sobrietà democratica, mentre in realtà era solo un tributo ai furori populisti del Movimento 5 Stelle - le Commissioni si sono trovate sovraccariche di lavoro. Quelle che prima erano funzioni ripartite ora sono concentrate in poche mani. Risultato? Meno competenze diffuse, più fatica per pochi, e più potere per l’Esecutivo.

Dire poi che, con la settimana breve, i parlamentari avrebbero più tempo per «curare il collegio elettorale», è una sonora bugia. Un falso istituzionale. La verità è che, con la legge elettorale attuale, i parlamentari non vengono eletti, ma nominati. In molti casi, paracadutati in collegi che non conoscono e da cui non sono conosciuti. Senza radicamento, senza relazioni territoriali, senza neppure una pagina Facebook che parli di quel territorio. Non c’è da stupirsi se l’astensionismo ha superato la soglia psicologica del 50%: perché mai votare chi non si è scelto? Così, il parlamentare alla maniera di Ciriani è un figurante, un comprimario nel teatro della democrazia svuotata. Un passacarte di decreti scritti altrove, da firmare in Aula con compostezza.

C’è poco da scherzare, la democrazia rappresentativa corre grossi rischi, se non cambiano i regolamentari della Camera e se non si apre un cantiere per le riforme istituzionali, costituzionali ed elettorale. L’Aula costituisse una Bicamerale non come quelle fallimentari passate o gli elettori votassero per una Assemblea costituente. Per non parlare, infine, dell’Ente regione i cui consiglieri, in alcune regioni, avendo la potestà di legiferare, meglio fanno danni e guasti inenarrabili. Oppure, usano la non presenza, facendo mancare il numero legale su alcuni provvedimenti i cui interessi per gli elettori sono vitali. La Puglia primeggia e primazia politicamente. Ad esempio. E, già che ci siamo, almeno una richiesta minima si può fare: nelle poche sedute rimaste, il presidente Fontana, e non solo, li inviti sia a vestirsi in modo decoroso sia a tenere un atteggiamento understatement. Per rispetto dell’istituzione, se non dei cittadini.

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