il caso

Gli scandali in Puglia e la presenza statale (dove serve)

Giuseppe L’Abbate

La verità è che le società partecipate, se non riformate radicalmente o dismesse laddove non necessarie, rischiano di diventare un moltiplicatore di inefficienze, sprechi e opacità

Da settimane, la cronaca giudiziaria pugliese ci restituisce un quadro sempre più difficile da ignorare. Una sequenza di episodi che, pur diversi nei contenuti, raccontano la medesima fragilità strutturale: quella del sistema delle partecipate pubbliche, comunali e regionali, che troppo spesso si trasforma da strumento al servizio dei cittadini in terreno di conquista per logiche di potere.

L’azienda dei trasporti pubblici di Bari, l’AMTAB, è oggi sotto amministrazione giudiziaria per sospette infiltrazioni mafiose nella gestione delle assunzioni. La Apulia Film Commission, motore della promozione cinematografica regionale, è stata investita da polemiche su criteri di assegnazione opachi e possibili conflitti d’interesse. In Aeroporti di Puglia, una dirigente è stata nominata (poi dimessasi a seguito dello scandalo) grazie a un titolo di laurea falsificato, al centro ora di un’indagine penale. E su Pugliapromozione, agenzia regionale per il turismo, grava un'inchiesta che ha portato al sequestro di beni per centinaia di migliaia di euro: fondi pubblici che sarebbero stati utilizzati per spese personali.

Questi sono solo gli episodi più recenti, ma purtroppo non sono isolati. La lista potrebbe continuare, segnalando una tendenza preoccupante che richiede attenzione e intervento.

Non è utile qui concentrarsi sulle responsabilità individuali, che spetta alla magistratura accertare. Ma è doveroso interrogarsi su ciò che questi fatti ci indicano come sistema.

La verità è che le società partecipate, se non riformate radicalmente o dismesse laddove non necessarie, rischiano di diventare un moltiplicatore di inefficienze, sprechi e opacità. Questo accade non per qualche stortura occasionale, ma per un’impostazione che spesso rende la gestione subordinata alla politica.

Le nomine si fondano troppo spesso su logiche di appartenenza anziché di competenza, e anche le migliori intenzioni, quando calate in meccanismi deformati, finiscono per soccombere.

Qualcuno, di fronte a questi episodi, propone soluzioni come codici etici, albi dei meritevoli, commissioni di vigilanza. Strumenti utili, forse, ma non risolutivi. Perché ogni nomina ha una scadenza, ogni incarico è destinato a essere sostituito, ogni norma può essere aggirata se non si modifica l’impostazione generale.

Il nodo è politico e culturale. Serve una scelta di fondo: separare la responsabilità di governo da quella di gestione. Restituire al potere pubblico il ruolo che gli è proprio – quello di indirizzo, di controllo, di garanzia – e affidare la gestione dei servizi a operatori individuati con procedure trasparenti, su basi concorrenziali, con obiettivi chiari e verificabili. Non è una fuga dal pubblico. È esattamente il contrario: è un modo per rafforzarne l’autorità, liberandolo dal peso di ciò che non è in grado di amministrare con efficacia.

Ci sono ambiti, certo, in cui la presenza pubblica è necessaria. Ma ce ne sono molti altri in cui essa non solo è superflua, ma addirittura dannosa. Dove il mercato funziona, dove esistono competenze diffuse, dove le tecnologie evolvono più velocemente delle strutture amministrative, mantenere presìdi pubblici significa spesso trattenere inefficienza e opacità.

Non è una battaglia ideologica, ma una scelta di responsabilità. Si tratta di ridurre il perimetro dell’intervento pubblico dove questo non produce valore, per concentrarlo là dove è davvero indispensabile.

È tempo di discutere seriamente del destino delle partecipate. Di valutarne l’effettiva utilità. Di superare, con coraggio, quelle che servono più alla politica che ai cittadini. Non serve nominare nuovi assessori alla legalità, se non si affronta la radice del problema. Serve ripensare il rapporto tra politica e gestione. Serve ridurre i luoghi del compromesso e aumentare quelli della trasparenza.

Una partecipata in meno, a volte, può valere più di cento dichiarazioni d’intenti. E forse, vale anche una generazione di cittadini che torna a credere nella cosa pubblica.

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