L'analisi
Ma governare una università non significa concorrere per una funzione di potere
Cogliere il bene del passato e operare per il sostegno corale, partecipativo: solo così si garantiscono studenti e docenti
Le promesse di pace risuonano come idiomi ingannevoli, pronunciati dai soliti idioti delle guerre. La conseguenza è quella di giovani generazioni che si rifugiano in linguaggi senza memoria, vivendo un presente senza storia: urge che una rinascita culturale parta dalle Università, necessità che si fa improrogabile! Il sistema formativo universitario, al di là di intrecciarsi in ansietà lavorative e di carriere, cede a un appiattimento dei suoi fini, imbalsamandosi in sortilegi di potere, rivelanti una dimensione persino di indirizzo «pedagogico». Ciò è evidente quando si fa nuovo un passaggio elettivo al governo di una Università, passaggio preceduto da narrazioni timorose, o abbozzi ampollosi, di singolari epopee: una comunicazione matura, invece, coglie dal passato una specifica qualità.
Correre al governo di un’Università, quindi, non è concorrere a una funzione di potere da sfruttare, ma è preoccuparsi della vita di coloro che ci lavorano, occupandosi con sollecitudine del loro quotidiano, essendo l’Università una fabbrica del sapere comunitario, non un tentativo di gestire la vita altrui facendone un misero destino: in gioco è la felicità di tutti per formare gli studenti, senza rendere le loro lezioni comizi o letture cui assistere. La didattica universitaria deve anche spronare gli studenti a riconoscersi in un senso esistenziale per ritrovare realismo di opportunità e libertà di scelte.
Queste ultime non devono disperdersi in offerte formative bulimiche, cioè in un medium della comunicazione simbolicamente generalizzato, composto di forniture per ruoli e posti da lucrare come fossero indulgenze, sfuggendo così a realismo storico e causando grave imbarazzo sociale e cittadino. Senza formazione non potremo sperare in un futuro civile: l’Università ci permette invece di crederlo perché fabbrica dove svolgere un’opera particolare, collettivamente formativa delle giovani generazioni.
Insegnare all’Università è divenire operai della didattica e della ricerca, riconoscendosi in una fabbrica che suona l’apertura dei suoi cancelli con una sirena di raccolta e di richiamo collegiali, prospettiva che ci porterebbe a una rinascita, imperniata di realismo educativo, finalmente pronti tutti a vivere una stagione storica di qualità critico- pedagogica ed epistemologica. Come operai in fabbrica, o nella sanità, come braccianti nei campi, così le masse dei lavoratori universitari possono recuperare un compiuto realismo di unità. Valga d’esempio la lezione di uno dei grandi romanzi del XX secolo, Terre dissodate (Roma 1960) dello scrittore Michail Šolochov, da cui sorge la fedeltà nei confronti del dato storico, ed in cui la narrazione, scevra di entusiasmo patriottico e ottimismo politico, descrive la vita fatta di scelte, di sforzi e di gioia: spicca una prosa volta a rinnovamento e concretezza, itinerario d'impegno per le masse al loro lavoro, proprio come dovrebbe tornare a fare l’Università, attualmente piagata da pasticciacci di ruoli, di figure ordinate a funzioni e scodinzolanti attorno a contesti politici fugaci, svuotando la struttura di sprone comunitario, causando un alto livello entropico che è gestione delle vite degli altri e dei loro personali percorsi professionali.
Correre al governo di un campus universitario non è correre a un prestigio peculiare, ma alla cura degli operai dell’insegnamento, dell’amministrazione, operai nell’omogeneità della loro vocazione. In questo, gli studenti riscoprirebbero un richiamo professionale e un’armonia di dignità, espressi da chi tiene al loro futuro lavorativo: gli studenti di oggi saranno a loro volta operai nelle scuole, negli ospedali, nei laboratori, consci di un impegno nella vita per il bene comune. Partecipare alla vita universitaria è funzionale alla storia, perché cristianamente è scambio di esperienza e di collettivo senso didattico, senza del quale non potremo rinascere nella storia, perdendo di vista la realtà che ci riguarda.
Pertanto, si desidera credere che ogni sessennio al governo di una Università, si caratterizzi per sostegno corale di mutua benevolenza, uscendo da schematismi autoreferenziali, ipnotici e suggestivi, generativi di dinamiche, però, che coinvolgono in maniera drammatica coloro che ne sono risucchiati, causando pulsioni a snobismi pettegolanti, non lasciando emergere vitalità culturale in un collegiale segno di nuovo entusiasmo critico e di qualità ontologica all’insegnamento. Si sente viva la necessità di confronti interdisciplinari, partecipativi, senza indugiare a un fentanylico trantran, rendendo illusorio l’impegno e deludente il compito prestato.
L’Università non è un deposito, capiente, di soldatini di piombo o di scrocconi. Spetta, tuttavia, ad ogni operaio eletto al nuovo sessennio rettorale, cogliendo il Bene dal passato, in una ontologia della speranza, a non abbandonarsi a lamentazioni veterotestamentarie per ferite e mancanze anteriori. Ciò causa il solito pianto rituale collettivo che frena il riscatto a traguardi indifferibili, in una coralità che è presenza cittadina dei saperi e della partecipazione, comunitaria, a un lavoro attento agli orizzonti della didattica e della ricerca, sollecito alla richiesta generazionale: sarà epopea, «operaia e intellettuale», della formazione, solo testimoniando l’Università, non come ossario, ma come espressione di una sintesi, culturale, dal significato cruciale nelle prospettive di crescita di una comunità cittadina e del suo territorio, cioè senso di adesione in un paese ispiratore dell’Università, non omologabile a lotta di poteri, o ad azzardo come fossimo in una partita di teresina: l'Università è incontro generazionale; è condivisione ermeneutica di concetti; è interdisciplinarietà e confronto fra saperi; è pedagogico itinerario di maturazione alla scelta lavorativa per gli studenti. Non mere affinità politico-elettorali. Semmai... didattico-elettive.