il ricordo
La morte di Franceschini, l’ex brigatista pentito che voleva assaltare il cielo
Credo che difficilmente Alberto ed Aldo Moro si incontreranno, ma se fosse così, Moro sarebbe contento perché Alberto è persona che ha sbagliato, ma lo ha riconosciuto
Conosco Alberto Franceschini agli albori dei lavori della Commissione Moro-2, settembre 2014. Lo rintraccio per telefono e gli fisso, incautamente, appuntamento a Piazza del Gesù, luogo certo non felice per lui. Appena ci vediamo, con il sorriso sulle labbra, mi dice che solo un democristiano poteva decidere Piazza del Gesù per l’incontro.
Lo cerco per capire e conoscere dal di dentro il fenomeno delle Brigate Rosse che lui fonda con Mara Cagol e Renato Curcio a fine anni Sessanta.
In seguito ci vediamo tante volte, a Roma e a Milano per dibattiti, conferenze, incontri personali. In una occasione passeggiamo per ore a Piazza Duomo a Milano. In un’altra siamo insieme a discutere al Circolo della Stampa a Milano. Ceniamo al Ristorante Il Falchetto di Roma, dove pranza Biden, il giorno del funerale di Papa Bergoglio. Nessuno riconosce più Franceschini. Sembra un docile pensionato, un nonno buono. Un’altra persona rispetto al fondatore delle BR, anche quando testimonia nella Commissione Moro-2.
Non ha più la faccia feroce di quando è nella gabbia del processo ai brigatisti. È cordiale, sincero, riservato, anche affettuoso.
Nel maggio 2018 realizzo per la «Gazzetta del Mezzogiorno» una lunga e cordiale intervista nella quale Alberto si racconta con tanta sincerità. Mi colpisce quando gli chiedo cosa farebbe se incontrasse Moro in Paradiso, dove lui avrà difficoltà ad entrare. «Ascolterei con umiltà e gli chiederei perdono», dice. Ai giovani indica di non seguire le orme dei brigatisti e difendere la democrazia.
Sconta 18 anni di carcere senza mai aver ucciso nessuno. Ringrazia i Carabinieri per averlo arrestato, così non ha commesso omicidi. I brigatisti presenti nella strage di via Fani, quando Alberto è in carcere, scontano solo 13 anni. I mandanti dell’omicidio Moro nemmeno un giorno. Franceschini su questa differenza racconta che i colleghi dell’omicidio Moro sono più fortunati di lui.
A proposito del rapimento del giudice Sossi a Genova, sottolinea che il brigatista Francesco Marra invita i complici ad uccidere il giudice, lui rifiuta tale esito. Ricorda una sentenza del Tribunale di Milano che indica Marra come uomo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno.
Sostiene che le Brigate rosse sono infiltrate sin dall’inizio dai nostri Servizi. Quando parla di Mario Moretti, capo indiscusso delle BR dopo il suo arresto e qiuello di Curcio, si intristisce e non la racconta tutta, aggiungendo solo che Moretti ha evitato l’arresto per anni perché è stato più fortunato di lui e Curcio e che sempre Moretti, avendo saputo dell’imminente arresto, non ha avvisato lui e Curcio solo perché non aveva buona memoria.
Dal 1974 al 1976 tutti i fondatori delle BR sono arrestati, tranne Mario Moretti che ha una linea politica contrapposta a quella dei fondatori, affermando che sui viaggi di Moretti a Parigi permane un grande mistero.
A proposito dell’agguato del 16 marzo in via Fani, sostiene che avendo conosciuto tutti i brigatisti partecipanti, gli stessi non possiedono capacita militari adeguate all’operazione. I brigatisti hanno imparato a sparare nel mare, sparandosi sui piedi. Quando insisto per sapere chi altri stesse in via Fani mi dice sorridendo: «Voglio vivere, non chiedermi questo».
Aggiunge che la trattativa per la liberazione di Moro fallisce per la responsabilità di uomini e settori dello Stato, in particolare Francesco Cossiga. Lo Stato si preoccupa di rintracciare i documenti che Moro porta con se, non di catturare i brigatisti, cosa molto facile.
Gli chiedo del Memoriale Moro. Dice che è scritto da Remigio Cavedon, vice direttore del Popolo, quotidiano della DC, in stretto contatto con Francesco Cossiga e Flaminio Piccoli.
Alla mia domanda di sintetizzare l’esperienza brigatista risponde laconicamente: «Volevamo assaltare il cielo, ma ci trovammo con le natiche per terra».
Credo che difficilmente Alberto ed Aldo Moro si incontreranno, ma se fosse così, Moro sarebbe contento perché Alberto è persona che ha sbagliato ad intraprendere la strada del terrorismo, ma lo ha riconosciuto laicamente e sinceramente. Anche Moro cercherebbe di capire il perché.
Franceschini ha pagato gli errori con 18 anni di carcere, a differenza di quanti invece, nascondendosi dietro la dicitura Lo Stato non tratta, hanno idealmente accompagnato Moro verso la morte.
Alberto è morto l’11 aprile, affettuosamente assistito dalla moglie. La notizia è stata diffusa solo il 26. Leggo la riservatezza e l’umiltà di Franceschini. È andato via senza clamore, in silenzio, per farsi perdonare e dimenticare.
Lo ricorderò per la sua umanità e per il grande contributo che ha offerto per capire e conoscere il fenomeno brigatista la delittuosa vicenda dei 55 giorni che sconvolsero l’Italia degli onesti.