la riflessione

La sfida del Green Deal, basta con le ideologie l’Europa guidi il futuro

Nicola Intini e Pasquale Del Vecchio

Le conseguenze dell’incremento della CO2 nella nostra atmosfera sono visibili sempre più e solo un ostinato negazionismo o un approccio ideologico possono ignorarlo.

Il cambiamento climatico è certamente una realtà che deve preoccuparci e occuparci. Le conseguenze dell’incremento della CO2 nella nostra atmosfera sono, purtroppo, visibili sempre più e solo un ostinato negazionismo o un approccio ideologico possono ignorarlo.

Non v’è, quindi, dubbio che la visione della Commissione Europea riguardo agli obiettivi di emissione zero sono certamente condivisibili e a poco valgono le obiezioni di chi si autoassolve in ragione di una Europa con una ridotta impronta di carbonio.

Se su quella possiamo incidere, è bene dare il nostro contributo, sperando di fare da apripista per il resto del mondo. In tal senso, la Commissione Europea ha imposto non solo gli obiettivi che ci attendono entro il 2035, ma ha anche definito le tecnologie sulle quali puntare per traguardare una crescita sostenibile.

È onesto riconoscere, tuttavia, che anche questo approccio appare affetto dal germe ideologico e che le contraddizioni ad esso connaturate si stanno ormai manifestando chiaramente. Insomma, superando l’immediatezza della metafora del «mucca nel corridoio», in quello del Green Deal europeo, sembra esserci proprio un elefante! Il mercato dell’automobile è forse quello che sta subendo le conseguenze più impattanti sull’economia europea che vede nella industria automobilistica e il suo indotto, uno dei principali settori economici e un primato tecnologico condiviso con il Giappone.

La conversione obbligata all’elettrico ha portato l’industria europea a inseguire la giovane industria cinese che, mossasi per tempo e con molti meno vincoli normativi e culturali, oggi è pronta a produrre auto elettriche a un costo estremamente più competitivo di quello che può offrire l’industria europea.

Se aggiungiamo a questo il dato che l’automobile, dopo la casa, è il più importante investimento che le famiglie fanno, uno scenario di incertezza sul futuro del mercato dell’auto e sul futuro valore dell’investimento non fanno che scoraggiare gli acquisti.

Inoltre l’approccio ideologico adottato dalla Unione Europea da una parte tarpa le ali a tecnologie alternative, dall’altra si scontra con il fatto che la gestione di un parco auto elettriche comporta una infrastrutturazione gigantesca, un cambio radicale nei modi di utilizzo dell’automobile e, soprattutto, la risoluzione del problema numero uno: le fonti primarie di energia. L’elefante, per l’appunto.

Sappiamo infatti che l’energia elettrica è solo la modalità con la quale trasportiamo e rendiamo disponibile energia prodotta in modo più o meno sostenibile da una fonte detta appunto primaria.

Queste fonti devono essere sì sostenibili ma anche continue e regolabili in base al fabbisogno del momento. Questo delle fonti primarie è un problema tutt’altro che risolto e la recente discussione sulla riapertura al nucleare ne è la prova. Tuttavia c’è un’altra possibile via. L’energia del Sole, quella che tiene accesa la nostra stella.

Noi sappiamo che l’energia del sole funziona; sappiamo anche come generarla per brevi istanti. Non sappiamo ancora come farne la nostra fonte primaria di energia.

Se avessimo questa fonte primaria potremmo utilizzare vettori energetici quali l’elettricità (ovviamente) o l’idrogeno, l’ammoniaca o altro che renderebbe facilmente utilizzabile.

Servircene al meglio consentirebbe anche di ridurre l’impatto ambientale dell’industria del digitale, senza alcun dubbio energivora in ragione delle alte performance di trasmissione, analisi e alimentazione dei data center.

Necessario, quindi, diviene il rifuggire posizioni ideologiche sempre troppo insidiose ed oggi, anche, un po’ scomode e foriere di isolazionismi. Cercare nella ricerca scientifica le risposte ai problemi di un vivere sostenibile è forse la soluzione piena alla quale la vecchia Europa può guardare. In tal senso, la proposta Draghi di creare condizioni favorevoli a breakthrough tecnologici capaci di riportare l’Europa alla sua posizione di leadership potrebbe essere la strada. Il concetto del breakthrough tecnologico rappresenta nelle teorie sull’innovazione tecnologica il punto di rottura che interviene nel mezzo della traiettoria di sviluppo di una certa tecnologia. Tale punto oltre che segnare una discontinuità nella tecnologia rappresenta il momento zero di un nuovo e dirompente sapere, sul quale la società ed il mercato vanno a riconfigurarsi archiviando quanto già conosciuto e praticato in precedenza. È in quel punto di rottura che si compie la «distruzione creativa» teorizzata da Schumpeter come risultato del cambiamento strutturale del mercato e della società generato dal progresso tecnologico.

Ecco dunque che l’invito di Mario Draghi a soffiare sulla riconosciuta eccellenza europea nella ricerca al fine di allontanare le ombre di quella altrettanto consolidata minore capacità di trasformarlo in aziende e tecnologie made in EU diviene più che mai attuale. Ad accrescerne l’urgenza, l’attitudine europea a prediligere la normazione nel mentre che il resto del mondo corre spedito.

Nell’invito di Draghi a metter a fattor comune le macchine di supercalcolo e le competenze per «inseguire» US e Cina sulle tecnologie della AI, il rischio che come Europa corriamo è quello di iniziare la nostra corsa nel mentre la lepre sia già in fuga. Ecco allora che la soluzione potrebbe ritrovarsi sapientemente nascosta nella tana di un altro celebre leporide: il Bianconiglio di Alice nel suo Paese. Tra le trame di quel mondo misterioso, da sempre spazio per la ricerca rischiosa e sfidante del proprio ruolo nel mondo, la nostra Europa potrebbe riscoprire la sua centralità. Si tratta di una esplorazione impervia, per la cui realizzazione di richiede coraggio e capacità, programmazione e forza finanziaria, unità e decisione. Tutte cose che oggi l’Europa sembra avere più nella misura in cui servirebbero.

Eppure questa riscoperta del nostro ruolo nel mondo creerebbe quella discontinuità tecnologica e culturale capace di riposizionarci al centro di quel mondo che è la nostra casa comune, sperando che anche qui, come recenti notizie suggeriscono, la corsa non sia già iniziata.

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