editoriale

Ilva, in attesa del 10 gennaio per gli operai tarantini si annuncia un «nero natale»

biagio marzo

Aspettiamo il 10 gennaio, sperando che non sia come nella commedia di Samuel Beckett: «Aspettando Godot»

«Bianco Natale», il titolo della famosa canzone a stelle e strisce, purtroppo, a Taranto, è «Nero Natale». Benvengano, i sostegni finanziari che non rientrano tra gli aiuti di Stato, senza cadere nella procedura di infrazione Ue. La pazienza è una bella virtù, ma gli operai tarantini di Acciaierie d’Italia non sono della razza del personaggio biblico Giobbe che commentò «Dio ha dato, Dio ha tolto: sia benedetto il nome del Signore». Gli operai sono di carne e ossa, hanno famiglia da mantenere e il salmodiare non è il loro forte. Il processo di deindustrializzazione è iniziato da tempo, da quando ci fu «l’assalto alla diligenza» delle Partecipazioni statali e la crisi della siderurgia è al primo posto, visto il significativo numero di lavoratori diretti di AdI e indiretti dell’indotto. Oltretutto, la produzione è ridotta al lumicino. D’altronde, il manifatturiero è in crisi, tant’è che a ottobre c’è stato un calo del 3,1% e mancano gli investimenti per l’innovazione per rendere le nostre aziende competitive all’estero. Si parla della golden power, anche in AdI, ed è un bene, per proteggere i nostri asset strategici, ma va applicata in modo tale che gli investimenti possano farsi senza alcun problema.

Le privatizzazioni della industria statale, così come sono avvenute, non saranno ricordate come un processo, in cui il privato abbia brillato: dalle telecomunicazioni, alla Sme, all’auto - Alfa Romeo- alla siderurgia. AdI è in amministrazione straordinaria con i tre commissari, Giovanni Fiori, Davide Tabarelli e Giancarlo Quaranta, che porta la croce, essendo quello che possiede il how know tecnico della produzione siderurgica. Dopo la rottura, tra governo italiano e la famiglia Mittal, gestore di AdI, tramite l’ad, Lucia Morselli, la cui direzione è stata esiziale, per una mancanza di una prospettiva industriale, perché questa era la politica dei Mittal. La cui retorica arrivava a far dire alla Morselli che era l’azienda siderurgica tra le «più belle» che esistessero, in Europa. Il che non era vero, dato che funzionava, unicamente, l’Altoforno 4 - Afo4 - in regime di produzione ridottissima che a malapena arrivava a 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. E poi, da decenni non c’è mai stata manutenzione allo stabilimento: dall’as di Piero Gnudi, Corrado Carruba ed Errico Laghi, passando attraverso Arcelor Mittal, per arrivare, infine, a quest’ultima as, di cui sopra. I governi che si sono succeduti, dopo la gestione Riva, invece di produrre coils e bramme, hanno sfornato decreti legge fuffa, con il senno del poi.

Da questa gestione straordinaria, di cui il Ministro del Mimit, Adolfo Urso, ha voluto a tutti i costi, ci si aspettava una svolta, ma campa cavallo. Inaspettatamente, è stato scavalcato il tavolo permanente, dal momento in cui, insalutato ospite il governo non l’ha convocato e i sindacati hanno appreso dalla stampa che le «offerte vincolanti», relative all’acquisizione di AdI, sono state slittate dal 30 novembre al 10 gennaio 2025. La scusa trovata è che i player privati hanno chiesto più tempo per formulare le loro proposte, ossia per inviare le binding offers. Si dice che allo stato attuale i «favoriti» sarebbero Vulcani Steel e Baku Steel. Il primo gruppo fa capo alla famiglia Jindal, una vecchia conoscenza che collabora con diverse aziende italiane tra cui la Danieli. A nostro sommesso giudizio, la metafora più appropriata è: «molto fumo e poco arrosto». Nel senso che Jindal, essendo il prezzemolo per ogni minestra, alla fine, come visto in più occasioni, non chiude alcun accordo. Il secondo gruppo Baku Steel Company è il fiore all’occhiello della metallurgia della Repubblica dell’Azerbaigian. Su questo player, il ministro Urso ci spera molto. A ben pensarci, sarebbe l’unica carta disponibile, che potrebbe giocare. Dopodiché, si tira a campare, passando dai 5.000 cassaintegrati a un numero non quantificabile, di sicuro, di numero da capogiro.

Tra i quindici operatori nazionali e internazionali, tre dei quali manifestarono interesse per l’intero asset produttivo, i restanti dodici erano più portati per lo «spezzatino» dell’AdI, cui le organizzazioni sindacali si oppongono, perché metterebbe a repentaglio posti di lavoro e taglierebbero rami di azienda. Una sciagura alla sciagura. Tra i tre gruppi che hanno partecipato al bando c’era anche la canadese, o, meglio dire, statunitense candese Stelco di cui si sono perse le tracce. Al momento, AdI non ha occhi per piangere, avendo speso tutto e di più del prestito ponte di 300 milioni di euro del Mef, che è stato impegnato nella manutenzione e nell’acquisto delle materie prime. Non avendo un soldo bucato a disposizione non può produrre, venendo a mancare i minerali. In rada nel Mar Grande, sta una nave carica di minerali, ma non sono stati scaricati, dato che non c’è neanche per sogno nelle casse dell’argent de poche. Oltretutto, le aziende private dell’indotto e gli autotrasportatori non sanno a che santo votarsi. Bene, anzi male, non abbiamo capito, perché, forse, siamo duri di comprendonio, c’è stata la «Piedigrotta», con la presenza del ministro Urso all’inaugurazione della messa in marcia Afo1. Specchietto per l’allodole, per calamitare i player internazionali per l’acquisto dell’AdI? Aspettiamo il 10 gennaio, sperando che non sia come nella commedia di Samuel Beckett: «Aspettando Godot».

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