L'analisi

La pace difficile in tempi di guerre, tra ecumenismo e geopolitica grottesca

Gianfranco Longo

Sembra essere questo il destino della pace? Una parola rimessa soltanto ad annoiati discorsi in consessi politico-mediatici quali occasioni di rilancio per campagne elettorali transitorie?

In una celebre canzone del 1942 di Carl Fisher (musica) e di Bill Carey (parole), da titolo You’ve changed – canzone che raccomando fortemente al lettore di ascoltare interpretata da Paula Cole –, una donna reclama di non vedere più negli occhi di chi ama lo scintillio di quando lo aveva conosciuto, ed anche la memoria dei giorni passati insieme è andata via, e con essa le lettere e le parole d’amore, lasciando al loro posto un flebile sorriso, tramutatosi, infine, in uno sbadiglio incurante, stufo, annoiato (your smile is just a careless yawn).

Sembra essere questo il destino della pace? Una parola rimessa soltanto ad annoiati discorsi in consessi politico-mediatici quali occasioni di rilancio per campagne elettorali transitorie? O addirittura dovremo credere che la pace verrà affidata, nella sua globalità, alla novità politica del momento, cioè Trump, perché se la sbrighi lui, come se si recapitasse un semplice messaggio?

In realtà il neo-eletto Presidente degli Stati Uniti ha promesso di affrontare i conflitti in corso ripristinando la pace, cosa che però non è esattamente una tregua e neppure un neo-ecumenismo politico che sciolga i nodi della storia e sospenda vecchie contese territoriali. Neppure si tratta di convincere recalcitranti fazioni religiose, o etnico-politiche, a uno sguardo di fede e perciò di incontro per una reciproca intesa di libertà. Tale concordia, piuttosto, auspicherebbe un conseguente impegno in grado di costruire ponti e abbattere muri, sradicare steccati e fili spinati che delimitano sovente interi quartieri di capitali, insieme a zone interne di uno Stato, o anche esterne. Pertanto questo già auspicato neo-ecumenismo politico di pace ci lascerebbe tutti a contemplare ennesimi confini mentali e strategici, delimitazioni territoriali «monitorati» da sfaccendati osservatori internazionali. Si tratta di una realtà grigia, già vista e vissuta, più e più volte, dalla comunità internazionale, una realtà che rivela soltanto il bilanciamento degli armistizi fra ponderazione di futuri interessi geopolitici e sistemazione di assetti strategico-militari per una sicurezza futura.

Tutto questo grottesco scenario di promesse e azioni non fa altro che riproporre un déjà-vu sempre in bilico fra le certezze solo rilanciate dalla politica internazionale, come a una roulette, il loro mancato mantenimento e le situazioni concrete dei luoghi distrutti e da ricostruire insieme alle popolazioni, vittime di coloro che sperperano la memoria fra sbadigli e rinvii. Di queste popolazioni civili sovente accade che non importi granché a nessuno, se non a politici del momento per ottimizzare interessi tempora-nei, politici che passano senza memoria, che transitano e appaiono improvvisamente, e poi altrettanto velocemente scompaiono, lasciando die-tro di sé dubbie eredità storiche, e molto più spesso testimonianze civili di rovine.

Forse è l’attesa a far sbadigliare le varie parti in gioco, parti che andranno tergiversando fra lo sbrigare rapidamente nuovi assetti territoriali e il reclamare processi internazionali per crimini di guerra, cosa questa che avrà come suo mero fine quello di distrarre ulteriormente la comunità europea e mediorientale da ciò che si potrà configurare in un riassestamento dei ruoli militari contrapposti. Se ciò avverrà, fra rimbalzi di tregue e lente sottoscrizioni di complessi trattati di pace, non andando oltre timidi negoziati tattici e compromessi strategico-territoriali, sarà stato ancora una volta mancato quello spiraglio di luce che avrebbe potuto scuotere e de-stare coloro che dovranno gestire accordi e tutelare complicati interessi militari ed economici. Rischieremo di ritrovarci dinnanzi all’ennesimo avamposto, luogo da cui sarà possibile avvistare un trionfante messaggero in grado di controllare differenti incarichi politico-internazionali di pace, senza lasciar prevalere qualcuno su altri. Ciò avrà come esito di integrare ogni accordo di pace con una sua mortificante satira, cioè la soddisfazione reciproca delle varie parti in lotta, quasi a mostrare che tutte abbiano vinto, laddove invece tutti hanno perso. E così quel sorriso di gioia si ridurrebbe in effetti a uno sconsolato sbadiglio, proprio come dice la canzone, che rivela un innamorato annoiato, che non è più lui, che è cambiato. E che, in questo caso, non è mai stato innamorato della pace.

Netanyahu aveva promesso di riportare a casa gli ostaggi detenuti da Hamas, ma dopo oltre 400 giorni di guerra sono ancora tutti nelle mani dei terroristi. Ognuno può constatare come ci siano popolazioni distrutte da ambo le parti, con il serio rischio di un temibile e concreto riprodursi futuro di frange terroristiche, cosa che non è possibile scongiurare del tutto. Queste presumibili fazioni inalbereranno nuove sigle attraenti, issando nuovi stendardi con proclami che dovranno a loro volta richiamarsi a comandi religiosi, andando così a stravolgere, in modo arbitrario e tendenzioso, proprio la fede, fede che non auspica che la pace sia solo una momentanea tregua fra una battaglia ed un’altra, ma una condivisione delle scelleratezze compiute dai diversi gruppi in lotta e un riconoscimento di ogni sofferenza inferta alle popolazioni civili.

Agli inermi.

Perché poi ogni guerra è sempre e soltanto… civile, testimonianza dello sgretolarsi della civiltà democratica.

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