L'analisi

C’è un Halloween dell’antichità nella nostra Puglia

Enzo Verrengia

La Halloween pugliese infatti viene tramandata da secoli e costituisce un dato folclorico importante e anticipatore dell’attuale tendenza. Che qui ha un valore autoctono e non di derivazione

Halloween tra le pinete, le doline e il mare del Gargano? La «cerca» di dolci la sera di Ognissanti è una tradizione che si ritrova a Sannicandro Garganico, ben prima dell’importazione di Halloween. Segno di influssi celtici, attestati dalle calate normanne del passato, le cui tracce si ritrovano anche in certi lineamenti biondi e rossicci.

Nella cittadina situata al culmine della salita e dei tornanti di Ingarano, l’itinerario che si diparte da Apricena, Halloween viene denominato l’anem’i mort, l’anima dei morti. A Sannicandro Garganico il culto cattolico e mediterraneo dei defunti si coniuga con le correnti rituali celtiche della festività anglo-americana. Attenzione, però, nel centro pugliese tutto è rimandato di ventiquattro ore. È infatti la sera del 1º novembre che i bambini si aggirano per le strade di Sannicandro e bussano alle case ripetendo la cantilena: L’anem’i mort o te sfasce la port! In cambio, si devono loro offrire delle leccornie. Inizialmente la questua si effettua solo nella cerchia familiare, poi eventualmente può allargarsi anche agli estranei. E guai a rifiutare. Proprio come accade nelle città americane. Solo che non è a causa del rischio di scherzi, quanto per rispetto, appunto, dell’anima dei defunti. Con un’altra importante differenza. A Sannicandro Garganico la scelta dei doni, se pure comprende dolci generici, pone l’accento sulle specialità locali: i ficura sicc, fichi secchi, e i celeberrimi pupurat, i taralli scuri a base di miele e mosto cotto. In loro mancanza, nel passato andavano bene anche le castagne. Si tratta di prelibatezze legate all’autunno e dunque alla vicenda stagionale su cui è imperniata la Halloween originale. A testimonianza di influssi nordici nel centro garganico.

La Halloween pugliese infatti viene tramandata da secoli e costituisce un dato folclorico importante e anticipatore dell’attuale tendenza. Che qui ha un valore autoctono e non di derivazione.

Il novembre che comincia in Italia non è occasione di festa, bensì di preghiera e riconciliazione con il ricordo degli estinti, che sono sempre «cari» come nel titolo di Evelyn Waugh. Di qui l’abitudine di lasciare la tavola apparecchiata la notte del primo novembre, in attesa che passino le anime dei defunti a consumare i resti, e lasciare una calza di dolci per i bambini. Quanto a quelli che non ci sono più, non tornano con fattezze da zombie o come nelle storie horror di Ray Bradbury, Stephen King e altri autori. Hanno le sagome evanescenti delle fiabe che un tempo si raccontavano davanti ai camini e ai bracieri.

I Celti introdussero questa ricorrenza nelle isole britanniche, in Irlanda, in Scozia, nel Galles e nella Francia settentrionale. Le divinità adorate dai loro sacerdoti, i druidi, dopo la cristianizzazione dell’Europa assunsero nuove entità serafiche oppure parvenze di demoni e streghe. Così la fatidica scadenza va accomunata alle tre date obbligatorie: Candelora (2 febbraio), Valpurga (30 aprile) e Làmmas (1º agosto). Periodi a rischio, in cui le forze considerate oscure insidiano il regno dei viventi. Tutt’ora animati da convegni di adepti neopagani in luoghi come il circolo di pietra di Stonehenge, nella piana di Salisbury, e la Torino in odor di zolfo.

A partire dal 19º secolo, allorché gli immigrati irlandesi esportarono Halloween negli Stati Uniti, questa consuetudine assunse pittoreschi connotati festaioli. Ecco così apparire le zucche vuote, nella cui scorza sono state ritagliate spettrali fattezze con un ghigno, illuminate dall’interno mediante una candela. Poggiate alle finestre delle case, dovrebbero proteggere da potenziali invadenze malefiche, esorcizzandole. E i bambini girano per le case cantando una filastrocca: Trick or treat / smell my feet / give me something good to eat!, ovvero: «Dispetto o dolce / odora i miei piedi / dammi qualcosa di buono da mangiare». Chi non porge caramelle e simili ai questuanti incorre in burle atroci, quali una verniciatura fuori programma all’auto parcheggiata o buche indesiderate nel giardino. Quando il tutto non degenera in vandalismi o peggio.

Gli impulsi animistici uniscono identità comunitarie di latitudini anche molto distanti. Contribuendo a respingere l’impeto della globalizzazione, che ha spinto il mondo ad appiattirsi su modelli di sviluppo già messi fortemente in dubbio dalla natura, oltre che da modalità esistenziali e culture diverse. Allora, dal Gargano a ciò che una volta era Thule, la memoria dei morti non può avvilirsi a spettacolo consumista.

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