L'analisi
Caso ex Ilva e giustizia. È tempo di rimettere i cittadini al centro
La vicenda merita una riflessione «a freddo», svincolata cioè dalle passioni che hanno accompagnato ieri le indagini e il processo, e oggi il provvedimento con cui la Corte d’Assise d’Appello di Taranto ha annullato la sentenza di primo grado
La vicenda ILVA merita una riflessione «a freddo», svincolata cioè dalle passioni che hanno accompagnato ieri le indagini e il processo, e oggi il provvedimento con cui la Corte d’Assise d’Appello di Taranto ha annullato la sentenza di primo grado.
In proposito, trovo incredibile - e frutto della superficialità con cui ormai vengono affrontati nel nostro Paese i problemi «tecnici» - che nessuno abbia speso una parola sul vero scandalo sotteso alla decisione dei giudici di appello tarantini: che non consiste certo nell’annullamento della sentenza di primo grado, in sé fisiologico nel nostro ordinamento, quanto nel fatto che sia intervenuto a distanza di dieci anni dall’inizio del processo! Si tratta di uno scandalo purtroppo ben noto agli operatori della giustizia, che in numerosissimi casi vedono questioni preliminari «rimesse alla decisione di merito» nelle cause civili (con decisioni che intervengono a distanza di anni dall’avvio della causa), ovvero riproposte in appello o addirittura in Cassazione nei processi penali (e che dunque, esattamente com’è avvenuto per il processo Ilva, possono essere decise a distanza di dieci o quindici anni dal momento in cui sono state sollevate).
Vi sarebbe un rimedio processuale semplicissimo per evitare casi come quello di Taranto: la decisione sulle questioni preliminari dovrebbe essere impugnata subito, e il processo dovrebbe restare sospeso finché non siano esauriti i gradi di impugnazione; ovvero, in mancanza di immediata impugnazione la sentenza che decide le questioni preliminari passa in giudicato (cioè non può essere né impugnata né riproposta). Ma se è così semplice, come mai una norma del genere non è stata mai varata, pur nel profluvio di riforme e riformette che contraddistinguono la nostra amministrazione della giustizia? E come mai il problema è stato di recente affrontato dalla legge-Cartabia solo per la questione di competenza per territorio, e non per tutte le questioni preliminari? La risposta è altrettanto semplice: al legislatore (ma anche ai magistrati) sembra non importare nulla dei «tempi» della giustizia. Tutti presi a litigare tra loro in quello che ormai si configura come uno scontro sull’estensione dei rispettivi poteri, politici (potere legislativo ed esecutivo) e magistrati (potere giudiziario) sembrano aver dimenticato che l’apparato giudiziario è utile se serve al cittadino; e che una giustizia che interviene a distanza di anni e anni dai fatti semplicemente non è giustizia, o comunque non viene percepita dai cittadini come tale. Così, ad esempio, se una sentenza definitiva sulla morte della ragazza di Cerignola dovesse intervenire tra una decina d’anni, inevitabilmente qualcuno penserà che avevano ragione i parenti nel volersi fare giustizia da soli. E una sentenza sulla vicenda Ilva che intervenisse tra altri dieci anni (cosa purtroppo del tutto possibile), altrettanto inevitabilmente non sarebbe vissuta come «giusta» dai tarantini, indipendentemente dall’esito del processo.
Ci sarebbe un gran bisogno, insomma, che si tornasse a ragionare di giustizia rimettendo i cittadini al centro di ogni riflessione. Non è impossibile assicurare giustizia in tempi accettabili, ma lo diventa se legislatori, magistrati e avvocati non riscoprono le virtù del reciproco ascolto e del compromesso tra le rispettive ragioni. Se invece, come accade oggi, prevale lo spirito di contrapposizione, casi come quello del processo Ilva sono destinati a ripetersi. E allora non lamentiamoci se il cittadino non va più a votare.