il commento
Tra idee e leadership alla ricerca (politica) del centro perduto
Il responso delle recenti elezioni per il Parlamento europeo che lascia immutate questioni e preoccupazioni che l’irrompere del M5S nella scena politica hanno a suo tempo generato.
Elly Schlein guida il Pd verso una metamorfosi grillina. È il responso delle recenti elezioni per il Parlamento europeo che lascia immutate questioni e preoccupazioni che l’irrompere del M5S nella scena politica hanno a suo tempo generato.
Fu un concerto di allarmi per la democrazia italiana. Carlo Nordio, parafrasando Churchill, definì il programma politico del M5S «un enigma dentro un indovinello, avvolto in un mistero» (Il Foglio 10 marzo 2017), cosa che ugualmente si può dire del programma del Pd. Per Marco Taradash lo statuto del M5S anticipava il progetto di distruzione della democrazia parlamentare avviata col Vaffaday «in attesa, di trasferirlo nella nuova Costituzione della Repubblica Democratica Diretta Italiana» (Il Foglio, 24 gennaio 2018). Rino Formica paventava la debolezza dei contrappesi istituzionali con l’incerto ruolo del Presidente della Repubblica che «non dispone più di un partito forte alle spalle, e che quindi si trova a galleggiare su un sistema decomposto» (L’Espresso, 6 maggio 2018). Romano Prodi si disse «spaventato» (Corriere della sera, 9 maggio 2018), ma il Pd non lo è e lavora al campo largo. A Di Maio, ora impegnato altrove, che chiedeva le dimissioni delle autorità indipendenti se dissenzienti sulla politica del governo, Sabino Cassese replicava che «il pluralismo del potere pubblico serve a uno scopo fondamentale, quello di impedire la tirannide della maggioranza ma Di Maio non lo sa» (Corriere della sera, 11 ottobre 2018).
Il primo alleato del M5S fu la Lega, capace di un’operazione trasformistica da antologia. Schierata nel campo opposto elettorale, ai suoi alleati aveva chiesto un patto unitario sancito da atti notarili che non impedì a Salvini lo strappo che fece il paio con quello di Bossi al primo governo Berlusconi. Ne avemmo politiche inconcludenti o dannose: pensioni a quota cento, stravolgimento del progetto di flat tax messo a punto dall’Istituto Bruno Leoni, sospensione della prescrizione giudiziaria, tentativo di abolire il divieto di mandato imperativo per i parlamentari. Poi venne il governo M5S, Pd e associati, propiziato dall’ondivago Matteo Renzi. Ne avemmo Superbonus edilizi indiscriminati, di cui ancora paghiamo il conto salato, e un caotico contrasto alla pandemia Covid che soltanto il commissario generale Figliuolo ha poi corretto con successo.
Il governo di Mario Draghi è stato una parentesi col ritorno alla politica ragionevole. Ma oggi lo stato delle cose non è molto diverso dallo scenario sopra descritto. La legge elettorale nega ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti parlamentari; le urne sono sempre più vuote perché il parlamento è percepito come il luogo della inconcludenza politica; la parola «riforma» è usato come un passe-partout per leggi mal concepite, come il premierato e il regionalismo differenziato. Insomma, la situazione sembra dare ragione ad Ernest Benn secondo cui, talvolta, «la politica è l’arte di creare un problema, trovarlo che esso esista o meno, diagnosticarlo in modo scorretto e applicarvi il rimedio sbagliato».
Serve, invece, l’estremismo del buon senso, come proponeva Alfio Marchini candidandosi a sindaco di Roma, e come insegnava il cardinale Richelieu: «La politica non è l’arte del possibile. È l’arte di rendere possibile ciò che è necessario». Ci manca il buon senso, la moderazione per fare ciò che è necessario, il cuore della politica centrista.
Il problema è come costruirla. C’è una prima difficoltà nel nome degli schieramenti, che hanno usurpato il termine. Centrodestra e centrosinistra sono due categorie inesistenti. Francesco Cossiga ricordava che le due analoghe denominazioni della prima Repubblica erano separate da un trattino che plasticamente metteva in rilievo le diverse convergenti sensibilità politiche: centro-destra e centro-sinistra. Il distintivo delle versioni attuali è, invece, l’eterogeneità inconciliabile delle forze che compongono gli schieramenti, la babele delle linee programmatiche che disorientano l’elettore, la studiata frammentazione e anarchia dei partiti che - come ha scritto Gaetano Quagliariello su questo giornale l’8 maggio scorso - insidia l’autonomia dei partiti nazionali più rappresentativi, come sperimentarono i governi Prodi e Berlusconi.
Cogliere il significato del trattino è il punto di partenza per evitare miscugli indigeribili: il centro è centro e sinistra o destra tutt’altra cosa. Natalino Irti (La tenaglia. In difesa dell’ideologia politica, Laterza 2008) ci spiega che il miscuglio è il percolato «(del)la politica senza ideologie», senza - cioè - «un’interpretazione della vita e della storia» senza una visione del futuro.
Dunque, il centro può nascere se c’è un programma che indichi mete ideali e concrete: l’Europa politica; l’ancoraggio senza se e senza ma ai valori e alle alleanze occidentali; dare spazio alla capacità dei cittadini, delle imprese, dei lavoratori per una diffusa innovazione e la crescita duratura dei sistemi produttivi; ridurre l’esclusione sociale selezionando i bisogni veramente necessari per render effettivamente disponibili i diritti di cittadinanza in un quadro di legalità e sostenibilità economica dell’azione pubblica con un sistema fiscale più equo e leggero.
L’humus di queste politiche è nelle tradizionali famiglie cristiano-popolari, liberali e socialdemocratiche europee. Le loro sensibilità politiche sono oggi più somiglianti di quanto si creda. Le dissomiglianze tra liberali e socialisti democratici, osservava già Luigi Einaudi, erano ormai piccole al suo tempo. Andrea Carandini lo scorso 23 settembre, intervistato dal Corriere della sera, ha espresso un concetto analogo: «O una democrazia è liberale, e anche per certi versi socialista, o semplicemente non è». E la politica sociale di ispirazione cristiana si fonda su princìpi comuni agli altri filoni: libertà, responsabilità, dignità, creatività, solidarietà. Sono i valori che deve avere un partito di centro.
Chi se ne farà carico? È la domanda più critica. Occorre una leadership vera che in giro non si vede e che sappia farsi seguire dal popolo, mentre le leadership che imperversano sono capovolte e aduse a seguire il popolo. I governanti hanno il dovere di ascoltare il popolo, ma mai di rinunciare a guidarlo. E questo mestiere politico è il più difficile e talora, appunto, impopolare. Ma non c’è alternativa per l’alta politica.