l'analisi
Dalle catene di Salis ai diritti civili, quei retaggi totalitari
Il caso di Ilaria Salis ha fatto ventilare un paragone del tutto indebito con quello dei marò pugliesi, il tarantino Massimiliano Latorre e il barese Salvatore Girone.
Il caso di Ilaria Salis ha fatto ventilare, fra le altre cose, un paragone del tutto indebito con quello dei marò pugliesi, il tarantino Massimiliano Latorre e il barese Salvatore Girone. La loro odissea non ha nulla a che vedere con i video delle aggressioni e della maestra in catene. Il duro confronto con l’India evidenziò che i dispiegamenti militari acquisiscono una complessità a volte scontata da chi esegue gli ordini.
Comunque, i fatti di Budapest richiamano analoghe condizioni detentive. Filippo Mosca sconta nel carcere rumeno di Porta Alba, a Costanza una pena di otto anni e nove mesi per narcotraffico. La madre, Ornella Matraxia, denuncia la reclusione del figlio in una cella di ventiquattro metri, con altri ventiquattro condannati e solo un buco al centro come latrina. Eppure, nel blob mediatico è facile trovare coaguli informativi incentrati sugli effetti a scapito delle cause.
L’Europa a ventisette rappresentava una priorità che avrebbe racchiuso il Vecchio Continente nella configurazione delle origini, crollato il Muro e finita la Guerra Fredda. Nel contempo si plaudiva a un allargamento di prospettive non solo economiche, bensì culturali, umane, artistiche. Dietro però si intravedeva una strategia ben lontana dall’afflato ideale seguito alla notte del 9 novembre 1989, allorché il mondo poté seguire in diretta l’abbattimento di quell’orrenda barriera che non separava un solo popolo, ma due sezioni planetarie.
Per gli americani, da sempre, liberazione significa anche espansione dell’influenza, dall’assetto bipolare a quello unipolare. Tanto che il passo immediatamente successivo fu quello di assorbire i Paesi del defunto Patto di Varsavia nella NATO, in palese funzione di contenimento della Russia, non più sovietica, ma non per questo venuta al ruolo di competitor dell’Occidente. Più che all’Europa, Polonia, Cecoslovacchia (non ancora scissa), Romania, Bulgaria e Ungheria, aderivano, e con l’entusiasmo vendicativo nutrito anche verso la Mosca postcomunista, ad un gigantesco dispositivo di alleanze che travalicavano il teatro continentale e si connettevano al trattato UKUSA (United Kingdom - United States of America Agreement), che raduna tutti i territori anglosassoni, compresi il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda, in una comune struttura bellica, fatta anche di intelligence: si veda il Grande Orecchio di Echelon, anche questo molto discusso ma poco analizzato.
In tutto questo, l’Unione Europea appariva più che altro una mediatrice del nuovo aggregato. E nessuno, ai vertici dei governi apparentemente promotori di tanta accoglienza, mostrava di comprendere che nella gran parte si trattava di nazioni dai pesanti retaggi totalitari, persistenti anche nelle istituzioni giudiziarie, nella polizia e nell’esercito. Perciò furono prontamente messe a disposizione di Washington basi, armamenti lasciati indietro dagli ex occupanti e impianti carcerari segreti utilizzabili, dopo l’11 settembre 2001, per le extraordinary rendition, i rapimenti e i confinamenti isolati di sospetti terroristi. Eppure bastava ripassare un po’ di storia. Nella Polonia di Józef Piłsudski l’antisemitismo raggiungeva già punte di ferocia prima dell’invasione nazista, e c’erano campi di concentramento nei quali poi si ritrovarono a patire i precedenti aguzzini con gli ebrei. Molte decadi dopo, a Varsavia si sarebbero registrate inquietanti derive reazionarie, resistenza all’immigrazione e malumori rispetto a Bruxelles.
Sulla Romania si potrebbe tornare indietro fino a Dracula, ma sarebbe folclore. Meglio attenersi alle atrocità della Securitate di Nicolae Ceaușescu. Quanto all’Ungheria, l’ammiraglio Miklós Horthy, il regime di Ferenc Szálas nel 1944 praticò il dettato antisemita di Hitler. La Cecoslovacchia, infine, patria di Franz Kafka, si è suddivisa in due repubbliche. Affermò a suo tempo Vaclav Havel: «Quando il patriota ceco non ha abbastanza coraggio (e senza coraggio il vero spirito critico è chiaramente impensabile) di guardare in faccia il presente, crudele ma aperto, di riconoscerne tutti gli aspetti problematici e di trarne senza riguardo le dovute conseguenze, pur se rivolte contro il proprio gruppo, si volge verso un passato migliore ma ormai chiuso, un passato nel quale si era tutti uniti».
Certo, le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, ma non si può evitare di tenerne conto. Soprattutto se si fanno le pulci alla Turchia in merito ai diritti civili, rifiutando finora la sua richiesta d’ingresso nell’Unione Europea.