La riflessione

Sentenze, incoerenze, aule vuote: quei saluti romani e l’emergenza che non c’è

Leonardo Petrocelli

Il giorno rivelatore è il 16 gennaio. L’Europarlamento discute degli italici fatti di Acca Larentia cioè delle migliaia di saluti romani rimbalzati su tutti gli schermi del continente

Il giorno rivelatore è il 16 gennaio. L’Europarlamento discute degli italici fatti di Acca Larentia cioè delle migliaia di saluti romani rimbalzati su tutti gli schermi del continente. Il Partito democratico ha dato l’input alla discussione, i Verdi tedeschi lo hanno raccolto e promettono battaglia. Le destre sono sotto accusa, l’Italia pure. Sul tavolo c’è il destino democratico del continente, mica noccioline. Ma c’è un problema. Fatale. Sono le 20 passate, è ora di cena. E così dei 705 deputati che dovrebbero popolare la plenaria ne sono presenti una ventina, cioè quelli titolati a parlare. Una choucroute alsacienne poté più dell’incipiente ritorno del duce. E così tutto declina tristemente nelle forme dell’ultimo giorno di scuola quando in classe non viene più nessuno e i pochi cirenei sopravvissuti si raccolgono intorno alla cattedra dell’insegnante con gli occhi incollati all’orologio.

Quella che doveva essere una giornata campale si è trasformata in un flop su cui glissare con malcelato imbarazzo. Tuttavia, la questione resta. Sarà stata anche ora di cena ma la diserzione è motivata da un punto sostanziale: oltre l’impressione che possono aver destato quelle immagini nelle più sensibili anime democratiche, non c’è nessuna emergenza fascismo. Né in Italia né in Ue. E non certo perché l’estrema destra non se la passi bene. Se la passa benissimo, molto meglio delle tradizionali famiglie politiche del mondo libero - socialisti, popolari, liberali e verdi - chiamate da decenni a un esame di coscienza che non arriva mai. Ma ritenere che dietro trionfi e programmi elettorali si annidi, in agguato, il pedissequo «ricalco» della Storia è poco più che propaganda elettorale.

Lo dimostrano proprio i saluti romani di Acca Larentia che, in realtà, molto poco hanno a che fare con il fascismo e tanto, tantissimo, con il neofascismo. Anzi, con il «post-fascismo» come più correttamente si dovrebbe dire. Cioè con quella storia politica che si è sviluppata dall’epilogo della guerra fino, sostanzialmente, ai primissimi anni Novanta del secolo scorso e che ha visto coinvolte decine di migliaia di dirigenti, militanti, simpatizzanti. Qualcuno il fascismo lo aveva vissuto, altri lo hanno sfiorato, la maggior parte - come i partecipanti al raduno romano - è nata dopo o molto dopo e lo ha superato, idealmente, già dagli anni Cinquanta. Se una connessione ancora (r)esiste è con quel mondo, con i Sergio Ramelli e gli Stefano Recchioni, più che con gerarchi di cui magari si ignora anche il nome. E se scappa qualche eccezione, come nel caso del ministro barese Araldo di Crollalanza (che però fu anche senatore del Msi), assume più la forma di una lode all’opera tangibile dell’uomo che di una spinta all’eversione. Ma sono, appunto, dei Gronchi rosa.

Quella post-fascista è, invece, una storia più fresca, che ha i suoi eroi, le sue date campali, i suoi morti e, naturalmente, anche le sue ombre, le sue violenze, le sue derive inquinate. E come tutte le storie collettive ha anche le sue liturgie a cominciare da quelle funerarie. Non è un caso che gli unici «tappeti» di saluti romani si vedano ormai solo in occasione di cerimonie e funerali in una sorta di tributo al passato prossimo più che a quello remoto.

Significativo che anche un intellettuale al di sopra di ogni sospetto come Luigi Manconi (per intenderci, l’autore di Accogliamoli tutti e Abolire il carcere) si sia speso per sottolineare come, nel caso di Acca Larentia, «il perimetro non comporti una valutazione sotto il profilo penale». Quale sia il perimetro per procedere, invece, lo fa intuire la sentenza della Corte Costituzionale indicando, come elemento discriminante, l’integrazione del «concreto pericolo di ricostituzione del partito fascista». Arriveranno le motivazioni, certo, ma appare fin d’ora piuttosto chiaro come un contesto cerimoniale, chiuso nella sua liturgia, senza ambizioni proattive, escluda l’automatismo fra braccia tese e patrie galere.

D’altra parte, i progressisti non rinunciano comunque a tenere la guardia alta. È una fermezza che rincuora dopo la «sbandata» per gli ucraini del movimento Pravi Sektor (settore destro) e del Battaglione Azov. Ricordate? I neonazisti, innamorati del leader collaborazionista Stepan Bandera, che tante lodi hanno ricevuto dagli intellettuali rosé di casa nostra («sono eroi»). E questo nonostante le loro idee, le loro rune, il loro suprematismo bianco cioè tutto il portato che potrebbe transitare in Europa dalla porta principale qualora l’Ucraina facesse davvero il suo ingresso nell’Ue. Lì dove c’è davvero l’emergenza a quanto pare va tutto benissimo. Così, per un attimo, qualcuno aveva temuto che l’antifascismo fosse un valore strumentale, intermittente, qualcosa da sfoderare se è utile a mettere in difficoltà Giorgia Meloni o Marine Le Pen ma da tacere, da deindicizzare, se invece rischia di incrinare il racconto binario (buoni-cattivi) del conflitto ucraino. Ma questi sono cattivi pensieri di osservatori in malafede. La guardia è alta e coerente. Purché non sia l’ora della choucroute alsacienne.

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