il commento

La bellezza di Taranto e il circo Barnum delle decisioni attese

Biagio Marzo

È la sola e unica città italiana, ormai, in uno stato di sofferenza grande e lunga e non si vede all’orizzonte, sinora, alcun filo di fumo

Taranto è l’antifona della città industriale in crisi, baciata dalla natura tra due mari: Mar Grande e Mar Piccolo. Tuttavia, le forze politiche endogene, ossia quelle di rappresentanza elettiva, si comportano come se fossero in una sorta di circo Barnum e non si rendono conto che, al momento, si ha bisogno di tutte le risorse umane e morali per uscire migliori anche da questa crisi che sta prendendo una brutta piega. È la sola e unica città italiana, ormai, in uno stato di sofferenza grande e lunga e non si vede all’orizzonte, sinora, alcun filo di fumo. Paradossalmente, il presente incerto e il futuro un azzardo. Tipico fenomeno di diplopia. I diversi governi, che si sono succeduti, non hanno avuto una visione da proporre, fuori dall’assistenzialismo che è stato esiziale.

Finora si è guardato il dito e non la luna nascosta dietro, senza evidenziare le grandi potenzialità che Taranto ha. Una per tutte: il porto in un Golfo tra i più belli del Mediterraneo. E nella biografia di Taranto il Mediterraneo è l’alfa e l’omega.
Per fortuna ancora si vive di micro criminalità, non arrivando ancora agli anni di cui Nico Ghizzardi e Arturo Guastella parlano in Taranto tra pistole e ciminiere. Fu una «macelleria messicana» di nome e di fatto che insanguinò e terrorizzò la Città. Vista la crisi profonda la micro-criminalità potrebbe, Dio ce ne scampi e liberi, assurgere alla grande criminalità. Taranto ne ha viste tante, ma la realtà di oggi non si ritrova nella sua storia millenaria. Dopo la seconda guerra mondiale, l’Arsenale militare e i Cantieri Tosi entrano, ovviamente, in una crisi ridotta ai minimi termini e l’unico sbocco economico industriale resto’ l’acciaio. Perché, l’Italia ebbe una grande domanda di acciaio, dato che si stava passando dall’economia dell’agricoltura a quella industriale. Attraverso la politica dei «poli di sviluppo» il governo decise di costruire, a Taranto, lo stabilimento siderurgico dell’Italsider - Finsider - IRI, a Brindisi arrivò la chimica della Montecatini poi Montedison e, in seguito, Enichem. Prima privata e dopo pubblica A Lecce, a fine anni Sessanta fu progettato lo stabilimento Fiat Allis. Di queste tre realtà, l’unica che, tutto sommato, ancora è in piena attività produttiva, è l’industria di macchine movimento terra di Lecce.

A Brindisi, la chimica è un antico ricordo, resta Taranto con l’azienda siderurgica con maggioranza franco-indiana del 62% e lo Stato Italiano - Invitalia in minoranza con il 32%. Alle spalle di questa realtà industriale c’è la privatizzazione sbagliata, fatta senza tener conto che l’acciaio è strategico per il sistema Italia, quindi, la presenza pubblica sarebbe stata importante che fosse restata come proprietà.

Il privato ha gestito l’Ilva da «padrone delle ferriere», non rapportandosi alla comunità ionica sul piano sanitario e ambientale e culturale, bensì, in maniera clientelare e spregiudicata. Una apocalisse industriale. Le conseguenze di tutto ciò è il processo giudiziario in corso «Ambiente svenduto» che fa pendant alla crisi dell’acciaieria. Da mesi sta durando il logorante braccio di ferro tra Arcelor Mittal e lo Stato italiano. L’ad, Lucia Morselli, aveva detto in modo convinto che tutto «va ben madama la marchesa», adesso, dice il contrario. Va fatto presente che i sindacati hanno più volte chiesto le sue dimissioni, avendo nella sua grammatica gestionale l’inesistenza delle relazioni industriali.

Senonché, con un solo un altoforno in funzione e con un calo di tonnellaggio di acciaio pari a 3 milioni in un anno, un disastro economico. Alla prova dei fatti, non si capisce che cosa voglia sul serio Mr Mittal e perché la sta tirando per le lunghe, acuendo lo stato di crisi della realtà economica industriale ionica. E non solo. Gli operai del siderurgico si trovano appesi a un filo e gli operai dell’indotto sono senza stipendio e tredicesima, con gli imprenditori che non pagano e non versano né i contributi fiscali né quelli previdenziali. Quattromila lavoratori di una costellazione di 49 imprese in balia delle onde, mai antifona più appropriata, trovandoci a Taranto. Si parla di oltre 160 milioni di euro, di cui 70, 9 milioni già scaduti che AdI non sta onorando per mancanza di liquidità con il privato che rifiuta l’aumento di capitale al contrario del pubblico che ha dato la propria disponibilità. Per iniziare il finanziamento previsto è di 380 milioni di euro. L’assurdo che lo scaduto delle fatture viene pagato dai 180 ai 210 giorni. Un modo di fare di AdI capestro per le aziende dell’indotto. Frattanto, Mr Mittal ha smobilizzato gli stabilimenti siderurgici di mezzo mondo e si sta posizionando nel suo paese di origine: India. Aspettiamo l’assemblea degli azionisti di AdI che si terrà il 22 dicembre per capire i giochi di Lakshimi Mittal. Insomma o dentro o fuori. E non finisce qui.

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