La riflessione
Settantacinque anni di diritti umani, un’utopia attualissima «trainata» dalle donne
È un testo, come quello della nostra Costituzione, scritto da persone dotate di una «visione» illuminata e capaci di immaginare un mondo nuovo e migliore
Il dieci dicembre del 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò a Parigi la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, un testo «miracoloso» che ebbe come incipit un commovente articolo uno: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti». C’è un evidente parallelismo tra il cantiere della Costituzione italiana, che fu l’Assemblea Costituente, attiva tra il 25 giugno del ‘46 e il 31 gennaio del ‘48, e quello della «Magna Carta» dei Diritti Umani, che ebbe il suo avvio con la prima sessione dell’Assemblea generale dell’ONU nel gennaio 1946 che decise per l’affidamento della stesura alla Commissione per i diritti umani, per giungere all’approvazione nel dicembre del ‘48.
Si tratta, dunque, di due documenti vicini nel tempo, con ampi richiami e rispecchiamenti vicendevoli nel riconoscimento dei diritti fondamentali, la qual cosa non può che rappresentare ragione di orgoglio per la qualità del lavoro dei nostri costituenti, che avevano anticipato dibattito e scelte condivise. Scelte che avevano come cifra caratterizzante il rifiuto della guerra, che aveva causato 70 milioni di vittime, e dei suoi orrori, il contrasto a tutti gli autoritarismi, la difesa della dignità umana.
La «Dichiarazione» ebbe come forze trainanti nella costruzione dell’impianto dei 30 articoli e nella determinazione politica ad andare avanti, le donne: innanzitutto la presidente del comitato redattore Eleonora Roosevelt, vedova del presidente americano, ma accanto a lei anche l’indiana Metha, autrice dell’emendamento che cambiò le parole «tutti gli uomini nascono liberi e uguali» in «tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali», con un’apertura di genere che anticipò di decenni la nostra sensibilità odierna.
Ma la sensibilità modernissima e l’attenzione verso i nuovi orizzonti della dignità umana, che si volle immaginare kantianamente affidata alla «pace perpetua», appaiono sorprendenti per un testo concepito settantacinque anni fa. E non si intende soltanto il pur rimarchevole catalogo dei diritti fondamentali rispecchiati dalle costituzioni democratiche del dopoguerra, come l’uguaglianza, la sicurezza, la proibizione della schiavitù e della tortura, la cittadinanza, i diritti processuali, i diritti alla libertà di movimento e all’asilo, alla formazione della famiglia, i diritti di proprietà, quelli politici (partecipazione politica, manifestazione del pensiero, libertà di riunione e associazione), la libertà religiosa, il diritto al lavoro: accanto a questo bouquet c’è un orizzonte straordinariamente nuovo e proiettato verso la modernità. Si pensi all’art. 23 che sancisce il diritto alla giusta retribuzione; o al 24 che parla di diritto al «riposo e allo svago»; o al 25 che afferma il diritto per ogni individuo a mantenere un tenore di vita dignitoso; e che dire della visione ontologica del diritto all’istruzione, finalizzata alla «promozione della persona umana»? O del diritto alla «fruizione dei beni culturali»? O del diritto alla privacy e alla reputazione personale, contenuto nell’art. 12, che sembra scritto pensando all’avvento delle tecnologie digitali?
Si tratta di un testo, come quello della nostra Costituzione, scritto in uno stato di grazia da persone non solo segnate dall’esperienza disastrosa della guerra, ma dotate anche di una «visione», forse illuminata da qualche baluginamento utopistico, ma certamente capaci di immaginare un mondo nuovo e migliore.
Non staremo a domandarci se l’Utopia dei nostri Padri, declinata nella Dichiarazione Universale e nei primi dodici articoli della nostra Costituzione, sia stata umiliata dai comportamenti dei contemporanei, leader e popolo insieme. Non staremo a domandarci se le dignità, le libertà, il diritto alla privacy e l’uguaglianza affermate dalle Carte dei Diritti del dopoguerra, trovino riscontro nell’età orwelliana del controllo totale da parte dei signori del digitale, se il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione trovino oggi almeno le medesime tutele che venivano garantite negli anni ‘70 del secolo scorso, ai tempi dello Statuto dei lavoratori; non ci chiederemo se il diritto alla salute, all’istruzione e alla fruizione dei beni culturali abbiano il necessario supporto da parte dei poteri pubblici; né ci domanderemo cosa ne è stato di quella grande promessa che i leader mondiali fecero adottando quella Dichiarazione dicendo «mai più» alle guerre.
Ad ognuna di queste domande ognuno di noi potrà dare una risposta. Ciò che un po’ ci sorprende, però, è il non aver trovato nei grandi media la dovuta attenzione a questo anniversario. Accettare la dimenticanza è un segno che non ci piace, perché così è come cancellare le nostre buone ragioni lasciando vuoto quello spazio in cui s’infilano quelle cattive.