la riflessione

Si dice «ho la ragazza» o «amo la mia ragazza»? Lessico, possesso e rabbia

Michele Partipilo

Come s’insegnano l’Italiano e la matematica, insegniamo anche il rispetto degli altri, i rapporti affettivi, la sessualità. Giusto, anzi giustissimo. Allora problema risolto?

La morte di Giulia sembra abbia scosso l’Italia. Manifestazioni, minuti di «non silenzio» e, soprattutto, Tante parole. Vuote, inutili, banali. Non appena si spegneranno i riflettori dei media – quanto? 48? 72 ore? – Giulia sarà dimenticata.

Se ne riparlerà durante qualche tappa della vicenda giudiziaria del suo assassino. Come è stato per le altre.

Che fare? Certo, l’attenzione dei media serve, come serve l’attenzione dei politici.

Servono le analisi e le proposte. Sembra ci siano anche quelle: le donne in Italia sono ancora prigioniere di una cultura maschilista e di una società patriarcale. Vero. Basta guardare il film della Cortellesi, C’è ancora domani, per capire di che cosa stiamo parlando. Allora – si dice – bisogna cambiare questa cultura, puntiamo sulla scuola.

Come s’insegnano l’Italiano e la matematica, insegniamo anche il rispetto degli altri, i rapporti affettivi, la sessualità. Giusto, anzi giustissimo.

Allora problema risolto? Nient’affatto, è solo calore e colore del momento. Intanto perché già si litiga sulla scuola: quale scuola? Dall’asilo? Alle Medie? O alle superiori? E quali docenti se già ora mancano quelli per gli insegnamenti curricolari e quelli di sostegno? E poi per quante ore? Una, dice il ministero dell’Istruzione e del merito, e fuori dall’orario scolastico.

Un’ora la settimana, fatta non si sa in quale ordine di scuola e non si sa da quale insegnante, per cambiare una millenaria cultura maschilista e uscire dalla società patriarcale. Si direbbe un programma vasto e ambizioso. Ma se anche si realizzasse, sarebbe sufficiente? Nell’enfasi di partecipare all’inesauribile show del dibattito mediatico qualcuno non si è accorto che il problema va al di là della cultura maschilista o della società patriarcale, lessico sociologico ormai in ritardo sulla attualità. Il tema vero, che ipocritamente nascondiamo, è che prospera la cultura del possesso. «Ho la ragazza», cioè è mia, come il telefonino o la moto. E, sia chiaro, amo la «mia» ragazza, così come amo il mio telefonino e la mia moto, cioè devono essere al mio servizio.

La cultura del possesso favorisce e rafforza una società violenta. Non solo la violenza delle baby gang o della criminalità. C’è una violenza di fondo cui ormai non facciamo più caso: è nei rapporti umani. Basta guardarsi intorno: la tv è una rissa continua dal mattino a sera. Anche sulla morte di Giulia. Non c’è talk show in cui non si litighi. Gli ospiti vengono selezionati secondo l’indice di baruffa che riescono a creare. Serve per l’audience, si spiega. È vero, una trasmissione moscia farebbe cambiare canale dopo tre minuti. Ma forse è moscia perché non ci sono contenuti interessanti.

Non ci si rende conto, però, che il litigio, la zuffa, lo scontro verbale diventano modello educativo per i giovani. Le urla, le parolacce, le offese, le minacce si instillano nei loro animi e sedimentano. A scuola, con gli amici, a casa con i genitori, non potranno che imitare quell’unico modello di comportamento. E non c’è programma che si salvi dalla violenza e dal suo succedaneo che è il turpiloquio: da quelli politici a quelli sportivi, pure quelli sentimentali o pseudo tali mostrano aggressività nelle parole, negli atteggiamenti, negli sguardi. È tutto così «normale» che nessuno ci fa più caso, anzi ciascuno si sente istigato a fare lo stesso, in famiglia come sul lavoro, per apparire in linea con i tempi.

E se dalla tv passiamo al web – regno incontrastato dei più giovani – il discorso peggiora. La violenza attraverso l’offesa, l’insulto, il dileggio, è la cifra di ogni social, di ogni chat. Fino al punto di trasformarsi spesso in reato. C’è un linguaggio di guerra che alligna nei nostri discorsi, privati o pubblici che siano. Come quelli dei politici, ormai tutti ben addestrati – come si fa con i chatbot dell’Intelligenza artificiale – a decantare la loro idea, ma riservando una stoccata all’avversario. Così, per il gusto di ferire, di colpire senza mai dare una tregua. Campagna elettorale continua la chiamano gli esperti. Falso, è diseducazione continua. In questa rincorsa alle parole armate, alle immagini sanguinolente anche noi giornalisti diamo il nostro contributo, non c’è dubbio. Ma non ci si illuda che il problema sia tutto nei media. I media lo mostrano, lo amplificano, lo diffondono, ma non lo creano. Viviamo un tempo popolato di cattivi maestri.

Se davvero si vuole educare, non bastano né una né cento ore di lezioni. Possono servire, ma non risolvono. I contenuti appresi farebbero la fine della data di morte di Giulio Cesare: subito dimenticata. L’educazione si può fare solo con gli esempi. Quali esempi non violenti ci sono oggi? Sono pochi, troppo pochi e questo spiega tutto, dai femminicidi in giù.

Mettiamoci la coscienza a posto, ancora qualche corteo, qualche striscione e qualche intervista e pure Giulia sarà stata uccisa invano.

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