la riflessione
Una pesca come auspicio di riappacificazione? No, è solo una pubblicità
La famiglia ha assunto forme diverse, accanto a quella tradizionale, e la pubblicità, specchio dei tempi, ne tiene conto per riflettervela
Una pesca per ricucire un rapporto coniugale reciso? Sì, negli occhi tristi di una bambina che vuole rivedere la mamma e il papà di nuovo insieme. Soltanto che la famiglia ha assunto forme diverse, accanto a quella tradizionale, e la pubblicità, specchio dei tempi, ne tiene conto per riflettervela. Allora non ha senso indignarsi o recriminare dinanzi a una sua rappresentazione post-moderna. Semmai, fa bene ripercorrere le variazioni che l’hanno preceduta. Si ricordi Enzo Jannacci, che affrontava il traffico natalizio della Milano anni ‘60, con moglie e prole in macchina, soffermandosi ad ogni cabina telefonica per esclamare nella cornetta: «Mamma! Due minuti e siamo là!». In cento minuti, la durata di uno spot di Carosello, c’era un intero modello sociale. Vita borghese e cittadina di una nazione inurbata, famiglia di provenienza – Mamma! – e famiglia costituita – in macchina –, pranzo festivo e focolare domestico.
Da lì, con un salto di qualche decennio, all’amenità coniugale e filiale del Mulino Bianco, dove la dolcezza, il gusto e la solarità della prima colazione sono correlativi oggettivi degli animi sereni che la consumano uniti e felici. Peraltro, è una formula di indissolubilità familiare che resiste in tutte le pubblicità di merendine e altre squisitezze da prima mattina e tracima nell’allettamento di nuove possibilità abitative da parte di aziende immobiliari.
Allo scoramento del divorzio si contrappone una narrazione pubblicitaria in cui papà, mamme e figli inzuppano saporiti biscotti nelle tazze di latte corretto al cacao e simili, traslocano in nuove abitazioni con camerette dei giochi da sogno e vanno in vacanza a bordo degli ultimi esemplari automobilistici.
Alla metà degli anni ‘80, prima che si paventasse l’inverno demografico, anche il sesso coniugale sicuro conquistava la sua evidenza.
Affermava il vittoriano Herbert George Wells, capace di grandi previsioni avveniriste con i suoi scientific romances da cui sorse, più ancora che dai libri di Jules Verne, la fantascienza: «La pubblicità è l’arte d’insegnare alla gente a desiderare certe cose». Nel caso della bambina, la pesca accorpa un impulso che va oltre il consumismo da supermercato e diventa auspicio affettivo dalle risonanze etiche per chi considera imprescindibile la tenuta del legame coniugale. È quasi la smentita dell’ennesimo motto graffiante di Ennio Flaiano: «La pubblicità unisce sempre l’inutile al dilettevole». La pesca, infatti, è utile ad un auspicato ricongiungimento.
A volte, il fine di trovate pubblicitarie originali può essere perfino la diffusione dell’arte. Come per la campagna varata anni fa dal prestigioso Leopold Museum di Vienna. Nel settembre del 2010 vi si inaugurò la mostra «La nuda verità», con l’esposizione di opere Egon Schiele, Gustav Klimt e Oskar Kokoschka. Ebbene, il museo offriva l’entrata gratis a tutti quelli che accettavano di presentarsi nudi. Si consentiva solo un costume da bagno. Per incentivo, in omaggio il bellissimo catalogo di Schiele.
L’idea era accentuare la dirompenza dei nudi realizzati da artisti che, all’inizio del secolo scorso, fecero scandalo. Verena Dahlitz, portavoce del Leopold Museum tenne a sottolineare che non si trattava di un’iniziativa per attirare visitatori. Ogni giorno ne arrivano già migliaia. «Abbiamo semplicemente pensato», dichiarò la Dahlitz «di far qualcosa di diverso, proprio tenendo conto del fatto che questi capolavori scaldavano le anime anche quando sono nate.»
Scrive Piero Dorfles nel saggio Carosello: «Nella pubblicità della società opulenta, nel duello tra gli oligopoli del mercato maturo, l’utilità e la qualità della merce non bastano più per catturare il cliente e battere la concorrenza: non si tratta più soltanto di arrivare al consumatore, bisogna attirarlo, farlo sognare, farlo innamorare del prodotto».
Il marchio di un supermercato che assurge a sugello di una riappacificazione. Nasce quella che un pubblicitario francese, Jacques Séguéla, ha chiamato «la logica dell’emozione».