L'analisi
Giusto il salario minimo ma non basta contro il crescente impoverimento
L’aumento dell’inflazione sta riducendo drasticamente il potere d’acquisto di lavoratori e famiglie
L’aumento dell’inflazione sta riducendo drasticamente i salari reali in Italia. Come ci ha ricordato l’ultimo rapporto pubblicato dall’International Labour Organization intitolato Global Wage Report 2022-23: The impact of inflation and COVID-19 on wages and purchasing power, nel 2022 le retribuzioni orarie reali in Italia sono diminuite di quasi il 6 per cento rispetto al loro valore reale nel 2019. Questo ha, ovviamente, determinato una perdita del potere d’acquisto di lavoratori e famiglie, situazione che non è destinata a migliorare nell’anno in corso, stando alle previsioni di crescita dell’inflazione ed in assenza di politiche specifiche o di cambiamenti nel contesto delle relazioni industriali.
L’inflazione ha anche ampliato le disuguaglianze tra le classi sociali e all’interno della forza lavoro. Sono, infatti, i lavoratori a basso reddito ad essere maggiormente colpiti poiché hanno un minor margine di manovra per far fronte all’aumento del costo della vita attraverso risparmi o prestiti e una percentuale maggiore della loro spesa è destinata all’energia e al cibo, proprio i beni su cui si sono concentrati i rincari.
Questo «effetto inflazione», in realtà, si combina con una tendenza di lungo periodo di riduzione dei salari reali in Italia: 12 punti percentuali in meno nel periodo 2008-2022, mentre nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea abbiamo assistito ad una crescita: in Francia e Germania, ad esempio, i salari sono aumentati, rispettivamente, del 6 e del 12 per cento.
È evidente come in questa situazione sia necessario adottare misure immediate e robuste per sostenere il tenore di vita dei lavoratori e delle loro famiglie: secondo Eurostat, nel 2021 l’11,7 per cento degli occupati in Italia viveva in condizioni di povertà lavorativa.
Sicuramente un passo nella giusta direzione, anche se non risolutivo del problema dei redditi da lavoro bassi, è la proposta di introduzione di un salario minimo indicizzato all’inflazione. Si tratta di una misura che risponde, come abbiamo visto, a un’esigenza reale e urgente (sono circa tre milioni i lavoratori che in Italia percepiscono una retribuzione oraria inferiore ai 9 euro, vale a dire inferiore alla soglia individuata nella proposta di legge sul salario minimo firmato da PD e M5S).
Ma cosa sappiamo sull’impatto di questa misura che, è bene ricordarlo, è presente in numerosi Paesi? L’esperienza internazionale ci dice che, se definito a un livello adeguato ed aggiornato frequentemente in base a valutazioni obiettive, il salario minimo legale può essere uno strumento utile per combattere il rischio povertà tra i lavoratori a bassa qualifica.
Questo è quanto emerge anche da un recente lavoro di due economisti dell’OCSE, Sandrine Cazes e Andrea Garnero, che suggeriscono come i salari minimi siano uno strumento politico utile per proteggere i lavoratori più vulnerabili dall’aumento dei prezzi e come gli aumenti dei salari minimi nominali decisi da quasi tutti i paesi OCSE, fra il dicembre 2020 ed il maggio 2023, abbiano contribuito a contenere l’impatto dell’inflazione sul potere d’acquisto dei lavoratori a bassa retribuzione. E questo senza alimentare ulteriormente l’inflazione. È questo un aspetto interessante da sottolineare in quanto spesso una delle questioni sollevate contro l’introduzione di un salario minimo riguarda il comportamento delle imprese che impiegano lavoratori con salario minimo e la possibilità di trasferire gli aumenti dei salari sui prezzi. In realtà, studi recenti dimostrano come il rischio di una spirale prezzo-salari sia limitato.
Si può, quindi, concludere che l’evidenza disponibile suggerisce un impatto positivo dell’introduzione di un salario minimo, pur ribadendo che questo strumento da solo non può risolvere il problema del lavoro povero ed invertire il declino dei livelli salariali che è ormai, purtroppo, un fatto strutturale del mercato del lavoro italiano, e che si tratta di una misura complementare alla contrattazione collettiva.