IL COMMENTO
Disagio, noia, emulazione storia e radici del «vandalismo 2.0»
Dalla Galleria di Milano alle opere d’arte non basta sanzionare, ci vuole qualcosa di più
I Vandali erano barbari germanici che si fecero una certa reputazione di violenti e iconoclasti con il terzo Sacco di Roma, nel 455. Spaccarono, distrussero, sporcarono, portarono via tesori: inventarono il «vandalismo», che oggi orna di sé le azioni dei neo-barbarici de ‘noantri.
I nostri Vandali sono, dunque, un prodotto nazionale, che spunta «da Trieste in giù», in età da adolescenziale a giovanile, annaspando tra il bruto e l’osceno. In origine l’atto vandalico stava ad indicare un gesto iconoclasta, di offesa e di distruzione, nei confronti di opere d’arte e beni culturali. In seguito, però, la parola ha preso il largo, comprendendo sfregi di qualsiasi natura ed entità.
Non che in passato l’atto vandalico non abbia goduto di buona fama in qualche comunità minoritaria: venne nobilitato dal pittore realista Gustave Courbet che tentò di smantellare la colonna Vendôme (siamo nel 1871) denunciandone il significato autoritario e imperialista. Ma il vandalismo non dispiaceva neppure a Nietzsche. Tali nobili ascendenze la collocherebbero in linea di coerenza con un altro obbrobrio dei nostri tempi, chiamato cancel culture, tendenza che, nel nome dei popoli oppressi, butta giù le statue di Cristoforo Colombo condannando in lui il perfido colonialista. Cinquecentotrent’anni dopo.
Non ci pare, tuttavia, che così profonde elucubrazioni abbiano attraversato la mente dei giovanotti che hanno imbrattato la sommità della galleria in piazza Duomo a Milano, o di quelli che si dedicano al riverniciamento (lavabile) di palazzi, Senato compreso, ed opere d’arte, all’incollaggio di parti anatomiche personali alle cornici, o, ancora, della moltitudine dei graffitari che si dilettano a invadere di sgangheratezze che urlano cattivo gusto, gli spazi urbani dove intravedono muri bianchi o superfici condominiali pulite.
Le scienze della psiche associano la sindrome vandalica ad un disagio giovanile, che, per dirla semplice, descrive un chiaro complesso d’inferiorità. Chi compie il gesto, infatti, percepisce, in modo consapevole o no, il senso della bellezza, della coerenza stilistica, della perfezione, dunque del dislivello tra sé e l’oggetto che ha di fronte: la sua azione distruttiva, dunque, ha come obiettivo quello di ridurre la dissonanza tra un sé percepito come inferiore e un oggetto superiore. Se lo sporco, lo umilio, lo intrido con qualcosa che è parte della mia creazione e ne modifica il canone facendo regredire la sua bellezza, diminuisco il gap tra me e quel maledetto oggetto.
Poi dentro il gesto c’è molto ancora: oltre il senso d’inadeguatezza, anche un contesto urbano e virtuale (attenzione: lo smartphone è l’unica vera agenzia formativa delle giovani generazioni) che gronda di violenza, una noia cosmica che si accompagna ad una rabbia cosmica tipica del tempo che va dall’adolescenza all’ingresso nel ciclo produttivo, obiettivo che si fa sempre più lontano nel tempo, solitudine metropolitana e cali di autostima dovuti all’inevitabile allargamento della forbice tra quello che vorresti per te e quello che fai. E poi l’emulazione, che è sempre un viatico per l’inclusione, per non restare esclusi.
Certo, vedere quei ragazzi che imbrattavano la galleria a Milano, o quegli altri, con l’alibi ambientalista, che sporcavano Van Gogh e il portone del Senato a Roma fa incavolare di brutto. Ma non è un incavolamento troppo diverso da quello che ti prende quando devi fare a zig zag i marciapiedi del centro per evitare deiezioni canine lasciate a ricordo perpetuo di padroni incivili. Ecco: spiegare il civismo, ai giovani ma anche alle altre generazioni di cittadini, sarebbe cosa buona e giusta. Ma non si fa. E allora non basta la sanzione penale o amministrativa. Ci vuole qualcosa di più. E poi, chissà se, predisponendo da parte delle amministrazioni locali, muri bianchi per essere donati alla creatività giovanile, non venga fuori un nuovo graffitaro come Keith Haring o Basquiat, geni della loro generazione. Proviamo nuovi approcci con i giovani. Per evitare che per loro i barbari diventino gli adulti. Cioè noi.