L'analisi
«Aree interne» e Pnrr: tocca alle regioni aiutare i piccoli comuni
Prima di parlare di Aree interne, bisognerebbe riparametrare la nostra concezione geografica e strategica dell’Italia, che è sostanzialmente un Paese-di-aree-interne
Dopo l’editoriale del direttore Oscar Iarussi di 23 luglio dedicato al Mezzogiorno delle «aree interne», abbiamo pubblicato ieri un intervento di Giuseppe Lupo, scrittore e italianista della «Cattolica» di Milano. Oggi sul tema interviene Angela Stefania Bergantino, professore ordinario di Economia delle Infrastrutture e dei Trasporti dell’Università degli studi «Aldo Moro» di Bari
Ha ragione il direttore Oscar Iarussi, nel suo articolo del 23 luglio, a non lasciar cadere il discorso attorno a quelle che con un certo eufemismo si chiamano «Aree interne», vale a dire la spina dorsale acclive e sempre più spopolata della Penisola, che la segna dal Passo di Cadibona alle Madonìe, come insegnavano un tempo alle elementari.
Ha ragione a richiamare la sua profondità cronologica, citando lo storico dell’economia Fernand Braudel, che, per il Mediterraneo del secondo Cinquecento, parlava della costa settentrionale del Mare nostrum come di un territorio tutto montuoso, nel quale gli spazi di pianura erano al tempo stesso un miraggio e un’opportunità. Parlava, Braudel, a proposito degli uomini di queste montagne, di «uomini a uso altrui», per indicare la nascosta e millenaria risorsa di queste aree interne, una risorsa che nella sua valenza positiva si è fermata però da tempo, e che prosegue nel suo meccanismo di svuotamento: l’emigrazione.
Questo per dire che, prima di parlare di Aree interne, bisognerebbe riparametrare la nostra concezione geografica e strategica dell’Italia, che è sostanzialmente un Paese-di-aree-interne, alle quali di tanto in tanto corrispondono delle aree costiere, che furono e sono protagoniste dello sviluppo economico moderno, e di un filo ininterrotto di riviere, sede di uno dei settori trainanti dell’economia del XXI secolo: il turismo. Non è forse il caso di rovesciare tale visione, e portare questa Italia B (che, naturalmente, è tutto fuorché B), in primo piano?
È dal 2013 che le Aree interne sono entrate a far parte del discorso pubblico e politico italiano. La Strategia nazionale per le aree interne (SNAI) venne promossa nel 2013 dall’allora neonata Agenzia per la coesione territoriale diretta da Fabrizio Barca e mirava alla riattivazione delle aree e municipalità remote del Paese. La strategia intendeva in primo luogo classificare i comuni sulla base della loro «distanza» rispetto ai centri di comunicazione e di sviluppo, e quindi suggerire una serie di azioni e politiche attive per contrastare il declino demografico e la marginalizzazione dei territori meno coinvolti nel processo di sviluppo complessivo. In questi dieci anni, l’Agenzia ha trascorso un travaglio ininterrotto fino alla sua rottamazione nel 2023: le sue competenze e le sue funzioni sono state definitivamente trasferite alla Presidenza del Consiglio dei ministri.
Le Aree interne si trovano, in una misura superiore alla media nazionale al sud. Le Aree interne del Mezzogiorno rappresentano il 44,8% del totale nazionale (dati 2020: focus Istat 22 luglio 2022) e ben 229 Comuni tra i più svantaggiati («ultraperiferici»), su un totale di 382 (60%), sono in questa parte d’Italia. Il confronto tra la mappa stilata agli inizi della SNAI nel 2014 e il 2020 è sconfortante: non solo i Comuni meridionali hanno registrato in una proporzione superiore rispetto a quelli del Centro e del Nord un peggioramento nelle posizioni, ma tutti i fenomeni strutturali che determinano la marginalizzazione (spopolamento, invecchiamento della popolazione, iniziativa imprenditoriale) dimostrano in molti casi una caduta verticale. Non è, ben inteso, una questione solo meridionale: ci sono Aree interne del nord che dimostrano lo stesso trend irreversibile. Poi, naturalmente, la pandemia ha inasprito tali tendenze e una fotografia aggiornata, che non ancora non c’è, sarebbe ancora più cruda.
Alla missione «Inclusione e coesione» il PNRR ha destinato circa 20 miliardi di euro, di cui solo 2 a «Interventi speciali per la coesione territoriale». Il meritorio monitoraggio che sta svolgendo Openpolis sulla realizzazione italiana del piano Next Generation EU mostra però che è proprio questa una delle politiche che stentano a trovare realizzazione, per i limiti ormai molte volte segnalati: scarsa capacità progettuale dei piccoli Comuni, difficoltà di passare dalla progettazione all’appalto e alla realizzazione, mancanza di personale qualificato nelle amministrazioni territoriali in grado di gestire flussi finanziari consistenti ecc. A tutt’oggi la previsione di avanzamento del Piano per le Aree interne era del 56% dei progetti, e siamo ancora fermi al 46% (https://openpnrr.it/misure/308/).
Insomma, ha ragione una volta di più il direttore Iarussi a cantare le lodi delle iniziative culturali, della vitalità intrinseca di questi territori: chiunque li conosca e li frequenti sa bene quali opportunità essi nascondano dietro ad un aspetto apparentemente conservativo e immobile. Per non sprecare l’occasione rappresentata dal PNRR è tuttavia necessario che le Regioni facciano molto di più di quanto hanno finora promesso o solo genericamente progettato. Le Aree interne non sono figlie di nessuno, delle quali magnificare la ricchezza potenziale: servono azioni, e concrete da mettere in campo immediatamente.