Il commento
Da Gomorra a Messina Denaro così la criminalità è diventata... «cool»
La mafia italiana ha sempre avuto un solo punto debole: la sgradevolezza estetica e l’assenza pressoché totale di fascino.
Diversamente dalle altre «sorelle» sparse per il mondo, la mafia italiana ha sempre avuto un solo punto debole: la sgradevolezza estetica e l’assenza pressoché totale di fascino. Niente Padrino e niente Scarface. Nessun ascetismo guerriero da Yakuza giapponese o misticismo criminale da Bratva russa. Diciamocelo: chi mai avrebbe voluto assomigliare a Totò Riina, cioè «totò u’ curtu», una specie di pastore di capre semianalfabeta, alto 1.58, e vestito come i nostri nonni contadini nelle giornate peggiori? Forse qualcuno avrebbe voluto averne il nome, certo, ma non l’aspetto. Al suo confronto, Al Capone e Lucky Luciano, pur antecedenti, parevano Dolce&Gabbana. Fatta eccezione per Vallanzasca, il crimine in Italia gira così, con figure grottesche alla Pacciani, dai vaghi cenni antropomorfi e incapaci di articolare un pensiero. Una volta ingabbiati, più che far paura fanno ridere o fanno pena. Nella stessa iconografia popolare, il mafioso coppola e lupara - cui pure si riconosceva una sorta di codice morale - è un personaggio da operetta, una macchietta da film di Fantozzi, buona per qualche sketch comico o per le versioni più aggiornate del teatro del pupi.
Oggi però qualcosa è cambiato. Lo rivela il rinvenimento, a Marsala, di panetti di hashish con sopra le immagini di Matteo Messina Denaro e, appunto, Riina. La mafia s’è fatta brand e i suoi boss sono diventati spendibili sul mercato come calciatori. Ma è una rincorsa che viene da lontano. Messina Denaro con i suoi orologi, le sue donne e il suo montone - che tante ironie e (purtroppo) tante emulazioni ha ispirato sui social - è stato semplicemente il «collettore» tra la fiction e la realtà. Ha permesso il farsi carne di quanto già abbondantemente favoleggiato dal «romanzo italiano» della criminalità organizzata.
Merito, se così si può dire, del profondo lavoro sull’immaginario operato dalle serie tv che si sono avvicendate negli ultimi anni. Facile indicare Gomorra, la fiction capostipite, l’onda che s’è fatta tsunami. O anche Suburra che un canovaccio simile lo trasla sui lidi di Ostia. Ma, alle nostre latitudini, si potrebbe fare l’esempio più modesto, ma non meno efficace, de L’ariamara, serie tv con un formidabile Mino Barbarese, prodotta dal gruppo Telenorba e andata in onda per quattro stagioni. Tutte hanno in comune la capacità di lavorare non (solo) sulle grande storie ma soprattutto sui dettagli, sul contorno. Sui particolari che fanno la differenza: modi di dire («sta’ senza pensieri», «poi usciamo»), le acconciature, i soprannomi.
E così i ragazzi si tagliano i capelli come Genny Savastano, si divertono a immaginarsi come Ciro l’immortale, ripetono talmudicamente battute e ragionamenti dei protagonisti. Ne riproducono la camminata o il modo di vestire. Basta con i contadini e le coppole. Finalmente (sic) la mafia s’è adeguata alla società dello spettacolo ed è diventata rappresentazione di sé secondo canoni contemporanei. E dunque appetibili.
Mentre, dall’altra parte, l’antimafia che fa? Prova a controbattere con iniziative di legalità, a rinverdire ciclicamente i miti tragici di Falcone e Borsellino, a dimostrare quanto sia profumato un orto strappato ai criminali e restituito alla comunità. Ma non ha presa come non hanno presa i suoi eroi a parte, forse, Peppino Impastato, sempre però riproposto nella sua santità irraggiungibile, nel suo eroismo da martire. Tutto è altissimo. Mentre l’immaginario mafioso scava in basso, quasi nel sottosuolo, sporcandosi le mani tra tagli di capelli e battute in dialetto, cercando di intercettare il sentire comune e di mettersi in scia. È L’umiltà del male, sempre vincente, cui Franco Cassano ha dedicato forse il suo libro più prezioso e meno compreso. Per «essere» Genny basta farsi la cresta dal barbiere sotto casa, per sentirsi Messina Denaro è sufficiente comprare un montone da Zara. Ma per essere Impastato? Bisogna morire?
Non c’è partita. E, ironia della sorte, la mafia non ha alcun merito. Sono stati i «buoni» che, come sempre, non sono umili e nemmeno innocenti, a crearne il fascino a portata di barbiere. Roberto Saviano ha spesso ripetuto che la sua opera, pur producendo emulazione, fa sì che i ragazzi, con i loro comportamenti, depotenzino la mafia, gettandola in caciara. Naturalmente non è vero. Non la depotenziano, non ne ridono, non la irridono. Al contrario, tentano disperatamente di incarnarla portandosi dentro un mondo dove non esistono forze dell’ordine né eroi positivi. Ma solo ascesa attraverso il crimine.
Per fortuna, le produzioni più recenti, come la seguitissima Mare Fuori (Rai Fiction e Picomedia), sembrano aver fatto tesoro dei disastri gomorriani. Accanto ai boss - stavolta pure giovanissimi - sgomitano anche personaggi, ugualmente apprezzati, ma portatori di modelli sani. O comunque non distruttivi, seppur nella complessità delle sfumature. Adulti e ragazzi. Storie di redenzione, di perdono, di riscatto. Di lotta al «sistema» inteso qui come destino criminale cui è condannato chi nasce «in miez a’ via». C’è del cool oltre la mafia, insomma. Qualcuno è stato bravissimo a trasformare i mafiosi in eroi pop da emulare. Forse è arrivato il tempo di provare a fare lo stesso con chi combatte dall’altra parte.